La bambina che somigliava alle cose scomparse – Sergio Claudio Perroni

SINTESI DEL LIBRO:
Pulce aveva sette anni, gli occhi color tatuaggio e un caratterino vivace. A
scuola andava bene ma in casa era una peste, o almeno così dicevano i genitori,
che la rimproveravano spesso per le sue monellerie. Ma Pulce non se la
prendeva: ascoltava i rimproveri con aria contrita, annuiva paziente, scontava
l’immancabile punizione... e ricominciava a fare di testa sua.
C’era però una cosa che non riusciva proprio a sopportare, ed era quando la
mamma, il papà, o peggio ancora la nonna (che, diversamente dalle nonne delle
favole, era come la mamma e il papà centrifugati), invece di lamentarsi per
quello che faceva si lamentavano per quello che era. Anzi, che non era.
“Perché non sei come il fratellino, che è così buono?”, “Perché non somigli
alla sorellina, che è così brava?”, “Perché non prendi esempio dai cuginetti, che
sono tanto educati?”. Quando le dicevano così, per Pulce era come se si
rinfacciassero a vicenda di avere ordinato una bambina sbagliata; e temeva che
un giorno o l’altro decidessero di impacchettarla e rispedirla al mittente per
farsi mandare quella giusta. Allora, preoccupatissima, andava a specchiarsi
nell’anta dell’armadio grande e si chiedeva cos’avesse di sbagliato: se fosse
colpa di quelle gambette che non riuscivano a stare mai ferme, o magari di
quegli occhi lunghi che volevano sempre andare più in là di ciò che vedevano;
e, soprattutto, si chiedeva perché mai dovesse imitare quel piscialletto del
fratellino, o quella strega della sorellina, o quei due sgorbi dei cuginetti, che la
nonna trovava tanto educati solo perché non vedeva le smorfie che le facevano
dietro le spalle. Ma siccome era una bambina volenterosa, strizzava forte forte
gli occhi e lì, davanti all’anta a specchio dell’armadio grande, cercava di
diventare come la sorellina o come il fratellino (i cuginetti no, a diventare come
loro non ci provava neppure).
Poi però le sembrava una pretesa troppo assurda farla smettere di essere
Pulce per trasformarsi in quei marmocchi rumorosi e inconcludenti, in quella
gentaglia che non sapeva neanche fare il giro del salotto saltando da un mobile
all’altro o giocare a nascondino con la propria ombra. Allora chiudeva
l’armadio e correva a fare apposta qualche monelleria, per riaffermare la
propria immutata e incorreggibile natura di Pulce. E così, puntualmente,
ricominciava la solita trafila di strilli, rimproveri e punizioni.
Finché un giorno, stufa di sentirsi dire che doveva essere come qualcun
altro, Pulce decise di fare quello che sua madre minacciava sempre e non faceva
mai. Decise cioè di “prendersi una vacanza”.
Pulce decise di “prendersi una vacanza”.
La mamma scomparsa
Quel giorno, Pulce se ne andò di casa. Ma la sua non era una fuga: piccola
com’era, di fughe conosceva solo quelle di quando giocava a Scappa-eacchiappa. Per lei si trattava semplicemente di andare un po’ a zonzo, starsene
in santa pace e sgranchirsi le idee.
Perciò non preparò nessun involto con dentro le sue cose più care, nessun
fagotto di quelli che i bimbi delle favole appendono a un bastone da portare in
spalla mentre si avviano verso l’avventura dell’orizzonte. Si limitò a indossare
un vestitino pulito, s’infilò le scarpe da ginnastica e rimase un attimo a
guardare la sua bambola preferita, chiedendosi se prendere almeno lei per
avere un po’ di compagnia – e rispondendosi che non era il caso: quella doveva
essere una passeggiata da adulta, e se vuoi avere l’aria da adulta non puoi
andartene in giro con in braccio l’emblema dell’infanzia. D’altronde, come
antidoto alla solitudine poteva sempre contare sul micro-pelouche che abitava
stabilmente nel suo zainetto insieme alla spazzola e allo specchietto.
Poi scese dabbasso e, mentre la mamma era impegnatissima a convincere i
fratellini che la frutta faceva parte della colazione, e il papà era impegnatissimo
a rivedere in tv i goal che aveva già stravisto la sera prima, aprì la porta senza
fare rumore e uscì di casa come se fosse una giornata qualsiasi. Ma sulla soglia
si voltò un istante e li salutò tutti sottovoce, perché da un lato non voleva farsi
scoprire e dall’altro non le andava di essere sgarbata.
Mentre si incamminava verso il parco, lanciò uno sguardo alla scalinata e
vide uscire dalla Chiesa Vecchia il giovanotto che abitava con la madre nella
casa di fronte alla loro. Era un tipo sempre elegante, viaggiava spesso per
lavoro e quando la incontrava le faceva un sacco di complimenti per la bellezza
dei suoi capelli. A Pulce stava molto simpatico, perciò si fermò ai piedi della
scalinata in attesa che scendesse, così poteva salutarlo e magari sentirsi dire
qualcosa di carino a proposito dei capelli. Ma il giovanotto fece una cosa molto
strana: attraversato il sagrato, si sedette sul primo gradino, alzò lo sguardo
verso il cielo e scoppiò a piangere.
Quando vedeva piangere qualcuno, Pulce si guardava istintivamente intorno
per scoprire chi gli avesse fatto male. Ma il sagrato della chiesa era deserto, e
intorno al giovanotto non c’erano piccole carogne che potessero avergli
sferrato un calcio negli stinchi o nonne infernali che potessero avergli
sequestrato il libro preferito; c’era solo un passerotto che zampettava sul
selciato e guardava atterrito il cielo, quasi temesse di veder scendere in
picchiata un falco pronto a inghiottirlo: difficile che fosse stato lui a far male al
giovanotto. Perciò Pulce lo raggiunse in cima alla scalinata, gli si sedette
accanto e gli chiese perché piangesse.
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