Kaputt – Curzio Malaparte

SINTESI DEL LIBRO:
Il Principe Eugenio di Svezia si fermò in mezzo alla stanza. «Ascoltate»
disse.
Attraverso le querce dell’Oakhill e i pini del parco di Valdemarsudden, di
là dal braccio di mare che si addentra nella terra fino al Nybroplan, nel cuore
di Stoccolma, veniva nel vento un triste, amoroso lamento. Non era il
malinconico richiamo delle sirene dei piroscafi, che risalivano dal mare verso
il porto, né il grido nebbioso dei gabbiani: era una voce femminile, distratta e
dolente.
« Sono i cavalli del Tivoli, il lunapark che è davanti allo Skansen » disse
il Principe Eugenio a voce bassa.
Ci avvicinammo alle grandi vetrate che guardano sul parco, appoggiando
la fronte ai cristalli, lievemente appannati dalla nebbia azzurra che saliva dal
mare. Per il sentiero che segue il pendio della collina scendevano zoppicando
tre cavalli bianchi, seguiti da una bambina vestita di giallo: attraversarono un
cancello, scesero a una breve spiaggia ingombra di cutters, di canoe, di
barche di pescatori dipinte di rosso e di verde.
Era una chiara giornata di settembre di una delicatezza quasi primaverile.
L’autunno già arrossava gli antichi alberi dell’Oakhill. Nel braccio di mare,
sul quale si protende il promontorio dove è costruita la villa di
Valdemarsudden, residenza del Principe Eugenio, fratello del Re Gustavo V
di Svezia, passavano grandi piroscafi grigi, con immense bandiere svedesi,
dalla croce gialla in campo azzurro, dipinte sui fianchi. Stormi di gabbiani
mandavano rochi lamenti, simili al pianto di un bambino. Laggiù, lungo le
banchine del Nybroplan e dello Strandvägen, si dondolavano i bianchi vapori
dai dolci nomi di paesi e di isole, che fan la spola tra Stoccolma e
l’arcipelago. Dietro l’arsenale si alzava un’azzurra nuvola di fumo, che il
volo di un gabbiano tagliava ogni tanto con un lampo candido. Giungevano
nel vento il suono delle orchestrine del Bellmansro e dell’Hasselbacken, e le
grida della folla di marinai, di soldati, di ragazze, di bambini, intorno agli
acrobati, ai giocolieri e ai suonatori ambulanti che sostano tutto il giorno
davanti ai cancelli dello Skansen.
Il Principe Eugenio seguiva i cavalli con uno sguardo attento e affettuoso,
socchiudendo gli occhi dalle palpebre chiare, percorse da sottili vene verdi.
Visto così, di profilo, contro la luce stanca del tramonto, quel suo viso roseo
(le labbra un po’ gonfie, golose, cui i baffi bianchi davano una gentilezza
quasi puerile, il naso aquilino, la fronte alta, incoronata dai candidi capelli
ricciuti, arruffati come quelli di un bambino appena svegliato) mi offriva allo
sguardo il disegno di medaglia del viso dei Bernadotte. Di tutta la famiglia
reale di Svezia, quegli che più assomiglia al maresciallo napoleonico,
fondatore della dinastia svedese, è il Principe Eugenio: e quel profilo netto,
tagliente, quasi duro, faceva un singolare contrasto con la dolcezza del suo
sguardo, con l’eleganza delicata del suo modo di parlare, di sorridere, di
muover le belle mani bianche dei Bernadotte, dalle dita pallide e sottili. (Ero
stato a vedere alcuni giorni innanzi, in un negozio di Stoccolma, i ricami che
durante le lunghe sere d’inverno, nel Palazzo Reale disegnato dal Tessin, e
nelle bianche notti d’estate, nel Castello di Drottningholm, il Re Gustavo V,
circondato dai suoi familiari e dai più intimi dignitari di corte, eseguisce con
una grazia, una delicatezza di disegno e di punto, che ricordano l’antica arte
veneziana, fiamminga, francese). Il Principe Eugenio non ricama: è pittore. E
nel suo stesso modo di vestire rivela quella libera e distratta maniera del
Montmartre di cinquant’anni or sono, quando il Principe Eugenio e
Montmartre erano giovani. Era vestito di una pesante giacca di harris tweed
di color tabacco, di taglio antiquato, abbottonata alta. Sulla camicia di pallido
azzurro, a righe bianche un po’ appassite, metteva l’ombra di un azzurro più
denso una cravatta di maglia, avvolta come una treccia di capelli.
«Tutti i giorni, a quest’ora, scendono al mare» disse il Principe Eugenio a
voce bassa. Nella luce rosa e celeste del tramonto, quei tre cavalli bianchi,
seguiti dalla bambina vestita di giallo, eran tristi e bellissimi. Immersi
nell’acqua fino ai ginocchi, dondolavano la testa spargendo la criniera sul
lungo arco del collo, e nitrivano.
Era il tramonto. Da molti mesi non avevo più visto tramontare il sole.
Dopo la lunga estate del Nord, dopo l’interminabile, ininterrotto giorno
estivo, senz’albe e senza tramonti, il cielo cominciava finalmente a
illanguidire sui boschi, sul mare, sui letti della città: e qualcosa come
un’ombra (forse era soltanto il riflesso di un’ombra, l’ombra di un’ombra) si
addensava all’oriente. La notte nasceva a poco a poco, una notte affettuosa e
delicata, e il cielo a occidente bruciava sulle selve e sui laghi,
accartocciandosi nel fuoco del tramonto come una foglia di quercia nel fuoco
stanco dell’autunno.
Fra gli alberi del parco, sullo sfondo di quel pallido e lieve paesaggio
nordico, le copie del Pensatore di Rodin e della Vittoria di Samotracia,
scolpite in un marmo troppo bianco, rievocavano in modo inatteso e
perentorio il gusto parigino di una fin de siècle decadente e parnassiana, che
prendeva a Valdemarsud-den un senso di arbitrio e d’inganno. Ed anche
nell’ampia stanza, dove noi eravamo con la fronte appoggiata ai cristalli delle
grandi vetrate - era la stanza nella quale il Principe Eugenio studia e lavora -,
sopravviveva l’eco, languida e stonata, dell’estetismo parigino di quegli anni
intorno al 1888, quando il Principe Eugenio aveva uno studio a Parigi (stava
di casa nella Rue de Monceau, sotto il nome di Monsieur Oscarson) ed era
allievo di Puvis de Chavannes e di Bonnat. Pendevano alle pareti alcune sue
tele giovanili, paesaggi dell’isola di Francia, della Senna, della Vallée de
Chevreuse, della Normandia, ritratti di modelle dai capelli sciolti sulle spalle
nude, quadri di Zorn e di Josephson. Fronde di quercia, dalle foglie purpuree
venate d’oro, sporgevano da anfore di porcellane di Marieberg, da vasi di
Rörstrand dipinti da Isaac Grünewald nella maniera di Matisse. Una grande
stufa di maiolica bianca, dalla fronte ornata di un rilievo di due frecce
incrociate, sormontate da una corona nobiliare chiusa, occupava un angolo
della stanza. In un vaso di cristallo di Orrefors fioriva una bellissima pianta di
mimosa, che il Principe Eugenio ha portato con sé da un giardino del
mezzogiorno della Francia. Chiusi gli occhi per un istante: ed era proprio
l’odore della Provenza, l’odore di Avignone, di Nîmes, di Arles, quel che io
respiravo; l’odore del Mediterraneo, dell’Italia, di Capri.
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