IMPOSSIBILE – Julia Sykes

SINTESI DEL LIBRO:
Una mano forte mi si premette contro la bocca, soffocando il mio urlo. Il
mio cuore si fermò. Qualcosa di freddo e rotondo affondò nella mia
guancia, e non avevo bisogno di vederlo per sapere d’istinto di cosa si
trattasse: era una pistola.
Per compensare quel breve silenzio, all’improvviso il mio cuore
cominciò a battere due volte più veloce del normale, il sangue che
galoppava nelle mie vene mentre il terrore mi pervadeva.
«Sei un dottore?» mi chiese una voce profonda dal sedile posteriore
della mia macchina, dove l’uomo doveva essersi nascosto. Il suo timbro era
rauco, con una punta esausta di disperazione.
La sua mano mi lasciò libera la bocca in modo che potessi rispondergli.
Presi in considerazione l’idea di chiedere aiuto, ma la pistola premuta
contro il mio viso mi fermò. Invece deglutii a fatica attraverso il nodo che
mi occludeva la gola.
«S-sì.» La mia voce era insolitamente acuta e tremante.
La canna della pistola si spostò sulle mie costole, premendo a fondo
contro la mia carne. «Adesso cominci a guidare esattamente nella direzione
che ti dico. Se non lo fai, non esiterò a ucciderti. Hai capito, doc?»
Il mio cuore martellante mi saltò in gola, togliendomi del tutto l’abilità
di parlare. Mi limitai ad annuire per comunicargli che avevo capito.
«Metti in moto e dirigiti in città,» comandò la voce. «Andiamo a
Brooklyn.»
Le mie mani tremavano violentemente, così afferrai il volante con forza
per assicurarmi di non sbandare lungo la strada. Non potevo tradirmi e
mostrare che ci fosse qualcosa di strano. Se un poliziotto mi avesse fermato
per guida pericolosa…
Non volevo pensare a cosa mi avrebbe fatto quell’uomo prima che io
potessi urlare per chiedere aiuto.
Mi sforzai di non andare in iperventilazione, preoccupata che anche il
più piccolo movimento avrebbe fatto scattare la pistola, mandando un
proiettile a trafiggermi i polmoni. La mia mente era stata congelata per lo
shock di quei primi minuti, ma all’improvviso tornò di nuovo a funzionare
mentre si immaginava tutte le possibilità più sanguinarie di ciò che mi
sarebbe potuto succedere. Raccogliendo tutto il mio coraggio, mi costrinsi a
parlare.
«Dove stiamo andando? Cosa vuoi da me?» Mi sforzai di mantenere
ferma la voce, desiderando disperatamente di non mostrare il mio terrore
all’uomo che teneva in mano la mia vita. Era ovvio che fosse uno squilibrato
e la sua evidente disperazione lo rendeva ancora più pericoloso.
Fu un errore parlare. Il duro metallo si premette ancora più a fondo
contro le mie costole, facendomi sussultare quando il dolore mi esplose nel
fianco.
«Non ho detto che potevi parlare,» disse la voce in tono tagliente.
«Guida e basta. Adesso gira a destra.»
La mia bocca si richiuse di scatto e serrai le labbra per trattenere le
domande. Seguii le sue indicazioni, in un silenzio carico di tensione
spezzato solo dalla sua voce.
Mentre guidavo, il terrore minacciò di trasformarsi in isteria. Lo tenni a
bada spietatamente, concentrandomi solo sul seguire le lapidarie istruzioni
dell’uomo. Ricercai il freddo vuoto dentro di me: il posto dove il mio cuore
era esistito così tanti anni prima. Con una facilità nata da una lunga pratica,
permisi alla fredda logica di governarmi al posto di arrendermi alle
emozioni. Le emozioni erano inutili e distruttive, e non ero mai stata più
grata della loro assenza nella mia persona fino a quel momento. Una mente
lucida era la mia unica possibilità di uscire da tutto ciò da viva.
«Fermati in questo parcheggio,» mi ordinò l’uomo dopo quello che
sembrò al tempo stesso il viaggio più lungo e più corto della mia vita. Una
morsa mi strinse lo stomaco mentre percorrevo la rampa nel parcheggio
scarsamente illuminato. Era deserto; non c’era alcuna speranza di trovare
aiuto, qui.
«Parcheggia e scendi dall’auto. Non osare emettere suono.» La sua voce
uscì in un ringhio minaccioso.
Non appena le mie mani si staccarono dal volante, cominciarono a
tremare vistosamente, come reazione all’immobilità forzata dovuta alla
presa su di esso. La pressione della pistola mi lasciò il fianco e mi permisi
un respiro di sollievo, ma la tregua durò poco. Sapevo di essere ancora sotto
tiro e non osai provare a fare nulla di stupido, come correre via il più
velocemente possibile.
Repressi il mio istinto di scappare. Assecondare quel bisogno primitivo
sarebbe stato un modo sicuro per farmi uccidere.
La portiera della macchina sbatté e poi la canna della pistola si premette
contro la parte bassa della mia schiena.
«Cammina.» L’uomo mi spinse con l’arma e non esitai a obbedirgli.
Cercai di camminare a un ritmo lento e regolare, evitando movimenti
improvvisi che avrebbero potuto fargli pensare che stessi cercando di
scappare.
Alla fine arrivammo di fronte a una porta pesante, con un tastierino
numerico posto sul muro accanto a essa. «Premi nove-tre-due-otto,» mi
disse lui con voce brusca. Il suo tono era di nuovo affaticato e non potei
fare a meno di chiedermene il motivo. Era a disagio per ciò che mi stava
facendo? La sua presa salda sulla pistola mi diceva che probabilmente non
era questo il caso. Aveva bisogno di me per qualcosa. La sua disperazione e
determinazione me lo avevano fatto capire. Una volta che avesse ottenuto
ciò che voleva, forse avrei potuto appellarmi al suo lato più umano, che
adesso era offuscato dal suo bisogno così impellente.
La mia mente schizzò subito su ciò che avrebbe potuto volere da me.
Speravo con tutta me stessa che non fosse nulla di tanto terribile come le
cose che stavo immaginando.
Inserii il codice, arrivando quasi a digitare i pulsanti sbagliati con le mie
dita tremanti. Anche se la parte più logica della mia mente aveva il
controllo, non ero immune all’adrenalina che accompagnava un’intensa
paura.
«Dovrai avere mani più ferme rispetto a ora, doc,» disse cripticamente il
mio rapitore. La porta emise un ronzio e poi scattò mentre si sbloccava.
«Dentro.» Premette la pistola contro la mia schiena per sottolineare
l’ordine.
Una volta entrati, percorremmo un breve corridoio fino ad arrivare a un
ascensore. Con la mano libera, l’uomo si allungò al mio fianco e premette il
pulsante. Quando le porte si aprirono con un suono metallico, entrai
docilmente in quell’ambiente ridotto che mi avrebbe portato dal mio
destino. Le pareti dell’ascensore avevano degli specchi e potei vedere il mio
rapitore per la prima volta.
Era giovane, forse sui venticinque anni, con capelli neri quasi rasati e
una mascella pronunciata. La sua bocca era ridotta a una linea feroce, ma i
suoi occhi castani rivelavano la stessa ansia che avevo colto nella sua voce.
Quell’uomo era teso, sconvolto. E quello mi spaventò più di ogni altra cosa.
Un uomo in crisi poteva risultare più pericoloso di un criminale con il
sangue freddo.
Le porte si aprirono fin troppo presto e lui mi accompagnò lungo un
altro corridoio, fino a quando non ci fermammo fuori da un appartamento.
La vernice della porta era scrostata a causa dell’umidità persistente che
aveva dato al corridoio un vago odore di muffa. Era chiaro che non ci
trovassimo in una delle parti migliori della città.
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