Il suo nome è Fausto Coppi – Maurizio Crosetti

SINTESI DEL LIBRO:
Fausto quando è nato non piangeva. Era tutto occhi. Mi fissava, e
io mentre moriva pensavo che aveva lo stesso sguardo. È nato di
pomeriggio, suo padre stava dietro al raccolto perché eravamo in
settembre. Faceva un bel caldo e io pensavo che una donna quando
mette al mondo i figli soffre, sí, ma intanto si riposa perché almeno
può stare a letto.
Mandarono a chiamare gli zii e il mio Domenico, che ci aveva
messo di piú ad arrivare perché trascinava un po’ la gamba. Era
tornato dalla guerra con un buco nel ginocchio ma intanto era
tornato. Dumenichín aveva guardato il bambino e aveva detto: è
piccolo. Pesava neanche due chili. Il nome lo ha scelto il padre:
Angelo Fausto. Quando poi è cresciuto dicevano che assomigliava a
me perché era brutto, ha il naso dei Boveri dicevano, mica dei
Coppi.
Il signor Bartali, quando tutti sono rimasti nella sala con il mio
Fausto, è venuto a sedersi con me in cucina e aveva la faccia
bianca. Stavamo da soli io e lui. Ha pianto un po’ ma senza fare
rumore e io avevo impressione di quell’uomo che lacrimava zitto
come una donna triste. Faustín l’ultimo giorno lo passa a casa sua,
avevo detto io quando parlavano di come fare il funerale. Intanto
però il carro non si vedeva. È partito tardi dall’ospedale, mi dicevano,
ma io lo aspettavo davanti alla porta come quando lui arrivava
mentre davo da mangiare alle galline e Fausto mi prendeva in giro,
mi ripeteva che non avevo mica piú bisogno delle galline e invece sí
che ne avevo. Si arriva al punto che una mamma vorrebbe solo
dimenticare e non è mica una cosa bella. Io ho portato al
camposanto il mio Dumenichín e poi tre figli. Serse aveva anche lui il
naso dei Boveri e un bel sorriso largo, non come Fausto che invece
aveva la bocca un poco piú piccola e quando sorrideva sembrava
che gliela avevano rigata con il coltello. Quando arrivò dall’Africa
giallo come un limone mi portò un borsellino di pelle. Cosa ci metto
dentro, Fausto?, gli avevo chiesto. Il mangime delle galline o le
monete oppure le pastiglie che devi prendere, mi aveva risposto lui.
Ti ricordi di prenderle, mamma?
Per la campagna non era tagliato. Si stancava subito, e dire che
era forte, magro ma forte. Un chiodo. Cosí chiamano i Coppi su
queste colline: i ciudín. Io l’avevo capito che Fausto non passava la
vita piegato sulla terra, non che era pigro ma non la passava. Allora
lo abbiamo mandato garzone dal signor Merlano a Novi, e magari un
giorno il bambino diventa un masaporsèi. Il sangue del maiale fa un
rumore di ferro quando scola nel mastello ma a quel punto la bestia
non soffre piú, è già da un’altra parte. Quando si ammazza il maiale,
i bambini un po’ si spaventano ma di piú sono curiosi. Il maiale ha gli
occhi di chi capisce e ha paura. Poi lo ingannano con una bella
pannocchia e cosí lo tirano dentro e lui è contento perché mangia.
Poi muore. Visto da fuori succede in fretta, ma io l’ho capito piú tardi
che non finisce mai, non si finisce mai di morire.
Il mio Fausto andava a scuola da sua zia Albina che era l’unica
maestra del paese. I bambini, anche Serse, tutti nella stessa classe,
i piú grandi insieme ai piccoli. Mi ricordo le matite e come i miei figli
le mettevano in fila. Serse aveva ventotto anni quando l’ho portato al
cimitero, e Fausto quaranta. Dina se l’è presa un brutto male a
trentasei. Non si finisce mai. Il mio Domenico anche aveva avuto un
brutto male allo stomaco, ma io lo so che aveva cominciato a morire
quando la catena del bue l’aveva chiuso intorno all’aratro, si era
attorcigliata la catena e lui era rimasto lí in mezzo, poi l’avevano
tirato fuori gli altri uomini ma lui non era stato piú uguale. Non come
in guerra con la gamba. Mi faceva cosí male vederlo zoppo, lui che
da giovane era il piú bravo ballerino. Cosí mi aveva fatto innamorare.
Dumenichín gli piaceva ridere e cantare e Serse ha preso tutto da
lui. Quando veniva a trovarmi faceva la salita di corsa e io gli sentivo
la voce da lontano, quella voce del mio Serse che rimanevano tutti
contenti. Anche Fausto riusciva a ridere con Serse e si consigliava
col fratello piú piccolo, da uno all’altro passavano neanche quattro
anni e a me mi sembrava quasi che il grande era Serse. Aveva tante
morose ma non erano morose vere, erano ragazze che gli piaceva
ridere. Solo Angioletta era proprio la sua morosa e io lo so che poi la
sposava. Il sabato andavano a ballare a Villalvernia e qualche volta
Serse si portava dietro il cugino Egidio che era poco piú di un
bambino. Vieni con me Egidio, che andiamo dal macellaio, gli diceva
e quello era il trucco, invece scendevano fino a Villalvernia. Eccola,
si vede laggiú, appena fuori dalla nebbia.
Serse era rimasto a dormire da sua zia Albina la sera prima di
morire, poi era partito per Milano. Nella notte aveva sentito un cane
che non la smetteva mai di abbaiare e pensava che quello era un
brutto segno, Albina però non l’aveva mica sentito quel cane. Poi la
mattina Serse non stava piú fermo, girava da una stanza all’altra e
spostava le cose. Le dà un bacio sulla fronte e poi l’abbiamo rivisto
solo nel letto dell’ospedale, morto.
Qui in casa ci sono ancora i fagiani impagliati che Fausto
prendeva a caccia: guardo i loro occhi di vetro e penso a quelli di
Faustín e Serse. Erano come due piccole bestiole tranquille, anche
se da bambini una volta avevano preso il fucile da caccia e si erano
messi a sparare nella campagna. Serse faceva fare qualunque cosa
a Fausto e Fausto non faceva niente senza dirlo prima a Serse.
Forse la faccenda della signora Giulia sarebbe andata in un’altra
maniera, con il fratello vivo.
Faustín sembrava un uccello di quelli che lui cacciava. Non lo
prendevi mai, scappava via. La sua prima bici era di suo fratello
Livio, ma troppo grande per lui. Ci pedalava sopra con le punte dei
piedi all’infuori. Fausto era svelto in tutte le cose e ubbidiente, però
come me parlava poco e delle volte non si poteva tirargli fuori niente.
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