Il sentiero perduto delle arance – Nadia Marks

SINTESI DEL LIBRO:
Kyria Maroula e Hatiche Hanoum, così chiamate ciascuna dai figli
dell’altra, erano donne tanto generose di spirito quanto lo erano nel
donare amore e allegria ai loro bambini e alle loro famiglie.
Le case dei Constandinou e dei Terzi erano divise solo da una fila
di alberi di arancio, limone e mandarino, così vicini che talvolta,
quando Maroula apriva la finestra della cucina, che affacciava verso
le piante, doveva lottare con le foglie. Quando erano in piena
fioritura, il profumo inebriante che invadeva la stanza era quasi
eccessivo. Molto spesso, dopo aver terminato le faccende
domestiche, le due donne si fermavano e si offrivano a turno un
caffè.
Quando era bel tempo, in primavera e autunno, si accomodavano
nel cortile dell’una o dell’altra e si riposavano al sole ancora caldo,
mentre in inverno sedevano accanto al caminetto acceso mentre la
pioggia, o a volte la neve, cadeva all’esterno. Gli inverni in montagna
erano freddi, spesso gelidi, ma non duravano a lungo, e quando
arrivava la bella stagione, veniva accolta con grande giubilo. La
brezza montana manteneva la temperatura mite, e nei giardini di
Maroula e Hatiche non mancavano gli alberi sotto cui ripararsi
quando faceva troppo caldo.
Le due case non erano separate da palizzate o confini, e le galline
che razzolavano qua e là mentre le due donne prendevano il caffè
appartenevano a entrambe le famiglie. Quando i bambini erano
piccoli, sedevano su un tappeto ai piedi delle loro madri, e quando
erano cresciuti avevano cominciato a inseguire i polli. Prima erano
arrivati i ragazzi, Orhan e Lambros, e circa un anno dopo era
arrivata Leila.
«Oh, quanto vorrei una figlia femmina», disse Maroula piena di
desiderio mentre cullava la piccola appena nata della sua amica.
«L’avrai presto, ne sono sicura», rispose Hatiche. «L’ho letto nella
tazza! I fondi di caffè non mentono mai. Credimi, sarai la prossima».
«Inshallah», “Se Dio vuole”, rispondeva Maroula con la tipica
espressione turca che spesso utilizzavano anche i greci.
«Mi fa piacere sentirti parlare turco, amica mia», esclamò in greco
Hatiche. «Stavo proprio pensando che forse è giunto il momento di
insegnartene ancora un po’. Da quanti anni ti parlo solo in greco
mentre tu sai dire solo inshallah oppure mashallah?».
Poiché la popolazione cipriota era composta da una maggioranza
di greci, i turchi erano costretti a conoscere la loro lingua e molto
spesso se la cavavano in modo egregio. Hatiche era una di loro,
come i suoi genitori e i suoi nonni prima ancora. Tranne per alcuni
errori inevitabili commessi da molti turchi, come il non riuscire a
distinguere i generi, aveva un vocabolario e una pronuncia
eccellenti.
«Ci ho provato», protestò Maroula, «solo che non sono brava a
memorizzare le parole… ricordi quando ti sei sposata e ho provato a
imparare qualche frase per far colpo su tua nonna durante la
cerimonia? Ero un caso disperato…». Un misto di senso di colpa e
imbarazzo la indussero a tacere; sapeva che la delusione della sua
amica era giustificata: molti greci non facevano il minimo sforzo per
parlare turco né ne sentivano il bisogno. «Perché non mi insegni a
dire “Vieni a prendere il caffè”, invece?», aggiunse per far contenta
l’amica mentre prendeva un vassoio di goulourakia che aveva
preparato il giorno prima. Quei biscotti deliziosi, ricchi di burro
aromatizzato alla vaniglia e cosparsi di semi di sesamo, erano amati
da tutti, e non c’era nessuno che li sapesse fare buoni come
Maroula.
«Se mi insegni a dirlo, quando toccherà a me invitarti te lo dirò in
turco!».
«Allora cominciamo con afiyet olsun», rispose Hatiche con un
sorriso, prendendo un biscotto che le offriva l’amica.
«Afiyet olsun anche a te», ripeté Maroula, riconoscendo
l’espressione “buon appetito”.
Si impegnò a memorizzare le frasi semplici che le insegnava
l’amica. Si esercitò in casa, ripetendo in continuazione le parole,
finché una mattina, aprendo le persiane verdi della finestra della
cucina, chiamò la vicina con orgoglio. Il ghigno soffocato e l’accesso
di risa che le arrivarono dall’altra parte del giardino non furono la
risposta che si era aspettata Maroula. Aveva sperato di ricevere lodi
e non di essere sbeffeggiata, ma la fretta e l’emozione le avevano
fatto confondere le parole, così, invece di domandare a Hatiche se
avesse finito le faccende di casa e desiderasse un caffè, aveva
chiesto: “Hai finito le abluzioni al bagno?”. L’amica era andata subito
da lei per spiegarle l’errore, tra le risa di entrambe. Ridere era ciò
che facevano meglio insieme; da quando erano ancora ragazzine, la
loro amicizia era basata sul buonumore e sul divertimento. Dopo
quell’incidente, però, Hatiche rinunciò a cercare di insegnarle ancora
il turco.
«Continua con le frasi che conosci già», disse accarezzando la
mano di Maroula. «Dato che io parlo molto bene il greco non ci sono
problemi».
«Te l’avevo detto», rispose l’amica scusandosi. «Sono senza
speranze». Le loro risa echeggiarono nel giardino, raggiungendo le
case circostanti.
Fin dall’infanzia le due amiche, entrambe nate nella primavera del
1909, erano state inseparabili, sempre desiderose di divertirsi e di
passare il tempo insieme in allegria. Quando non erano a scuola,
trascorrevano quasi tutto il tempo a giocare o inventare attività. Le
abitazioni delle loro famiglie sorgevano lungo la stessa strada, ed
erano separate solo da tre case. Anche se frequentavano scuole
diverse, con Maroula che andava alle elementari greche mentre
Hatiche a quelle turche, si erano scelte a vicenda come migliori
amiche prestissimo. I due istituti erano uno accanto all’altro, quindi vi
andavano insieme ogni mattina e dopo aver fatto i compiti si
ritrovavano in strada a giocare. Nei giorni di scuola avevano a
disposizione solo qualche ora e non avevano il permesso di andare
lontano. Altri bambini della loro via spesso si univano ai giochi, ma
quando arrivava il momento di rientrare in casa a fare i compiti loro
due non si lamentavano: erano entrambe brave studentesse e
prendevano molto sul serio lo studio.
«Non ho mai avuto l’opportunità di andare a scuola», diceva la
madre di Maroula, che non sapeva né leggere né scrivere, ma era
orgogliosa di vedere quanto sua figlia avesse voglia di apprendere.
«Tu invece sì. Ma soprattutto, hai molto cervello, quindi impara tutto
ciò che puoi finché puoi».
L’istruzione era gratis solo fino ai dodici anni, quindi gran parte dei
bambini, soprattutto le femmine, abbandonavano gli studi a quell’età,
a meno che i loro genitori non potessero permettersi di mandarle in
una città o in un villaggio più grande a imparare un mestiere. Di
solito per le ragazze era il cucito, mentre per i ragazzi si sceglievano
attività come la falegnameria o l’oreficeria, altrimenti intraprendevano
la strada dei loro padri.
Così, durante l’anno scolastico, le ragazze erano bravissime, ma
appena arrivava l’estate si scatenavano. Per tre mesi interi erano
libere di girovagare per le colline e per le vallate senza che nessuno
facesse loro domande. Nel vicinato c’erano tanti bambini, maschi e
femmine, cristiani e musulmani – o maomettani, come li chiamavano
i greci – e si riunivano tutti sotto il grande albero di cedro in fondo
alla strada in cui vivevano Hatiche e Maroula per decidere come
trascorrere la giornata. I pendii, con la loro vegetazione rigogliosa,
erano perfetti per giocare a nascondino e per arrampicarsi sugli
alberi. Lontani dagli sguardi attenti degli adulti, i giochi dei ragazzi
spesso diventavano audaci; le prime curiosità sessuali li spingevano
a rincorrere le ragazze con un solo intento: sollevare loro la gonna
per guardare le mutandine. Le ragazze protestavano con grida e
strepiti, ma anche loro erano segretamente emozionate da quella
caccia maliziosa. A sei e sette anni, si prendevano per ciò che
erano; erano tutti amici e accettavano le differenze degli altri: greci o
turchi, il loro principale interesse era divertirsi. Intorno ai nove anni,
Maroula si innamorò perdutamente di Ali, un ragazzo turco dai
grandi occhi castani e la pelle dorata che abitava a tre traverse da
lei. Aveva un anno più di lei, e se la inseguiva, lei si lasciava
prendere senza opporre resistenza.
«Quando sarò grande sposerò Ali», disse ad Hatiche il primo
giorno in cui lui le sbirciò sotto la gonna.
«Non so se tua mamma sarà d’accordo», rispose l’amica, che
aveva sentito i suoi genitori dire più volte che greci e turchi non
potevano unirsi in matrimonio.
Le due famiglie andavano d’accordo e le loro madri spesso
prendevano il caffè insieme per leggerne i fondi, ma a differenza dei
loro figli, la loro amicizia finiva lì. La madre di Hatiche aveva un vero
talento nel predire il futuro e molte donne greche della loro strada
andavano ad ascoltare le sue profezie.
«Sono brave persone», diceva la madre di Maroula quando la
figlia sembrava passare più tempo a casa dell’amica che nella
propria. «Ma sono diversi da noi, noi siamo cristiani, loro
maomettani». Quell’ultima parola le scivolava fuori dalla bocca con
un certo sdegno. «Non credono in Gesù Cristo, come invece
facciamo noi. Maroula mou, quelle persone hanno una religione a
parte che non è la nostra!».
Cercava sempre di convincerla delle tante differenze tra le loro
famiglie, ma oltre alla fede religiosa di cui parlavano sempre tutti e al
modo buffo in cui la madre di Hatiche parlava greco, Maroula non
aveva mai capito cosa potesse renderli diversi. Ciò che lei e tante
altre persone vedevano erano due ragazzine che si somigliavano,
non solo dal punto di vista fisico, ma anche nel temperamento. Da
piccole erano entrambe magre e scattanti, e correvano per i campi
come due caprette di montagna. Poi, con l’arrivo della pubertà, si
erano riempite nei punti giusti, facendo impazzire i ragazzi del posto.
In carne, formose, con gli occhi castani e la pelle chiara, Hatiche e
Maroula si erano sposate per amore, evitando i matrimoni
organizzati toccati a quasi tutte le ragazze del villaggio.
L’infatuazione fanciullesca per Ali era passata da tempo a Maroula,
le cui attenzioni si concentrarono su un ragazzo greco più grande
che desiderava solo conquistare il suo cuore. Si innamorarono di
due giovanotti del villaggio ed entrambe suscitarono uno scandalo
per aver scelto liberamente il proprio sposo.
«Quella piccola Hatiche mi ha rubato il cuore», diceva Hassan, il
figlio del sarto, al suo amico ogni volta che la vedeva andare a
prendere l’acqua alla sorgente nella piazza del villaggio. «È rotonda
e matura come una pesca succosa, e quando mi guarda perdo la
testa». Hassan aveva visto solo gli occhi di Hatiche, che si copriva
castamente con il velo quando usciva a riempire la brocca, ma a lui
bastavano per sentirsi come colpito da un fulmine.
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