Il sentiero degli alberi di limone – Nadia Marks

SINTESI DEL LIBRO:
Dalla barca l’isola si intravedeva a malapena, ma Anna era già sul ponte, a
sporgersi più che poteva e ad aguzzare la vista, nel tentativo di scorgerla.
Brillava in lontananza come una colomba bianca che galleggiava sul blu
liquido dell’Egeo. Colta dalla medesima felicità che aveva sempre provato
arrivando in quel luogo, Anna tornò a quando aveva dieci anni. Le braccia
aperte, i capelli che volavano in ogni direzione portati dal vento, il volto
bagnato dagli spruzzi salmastri, gridò di gioia, dimentica di chiunque avesse
attorno. Man mano che si avvicinavano, cominciarono a delinearsi le
montagne e le colline rocciose, e riuscì a distinguere la chiesa di Aghios
Nikolaos alta sopra una rupe, che splendeva alla luce del sole. Quella era la
loro isola, e vi facevano entrambi ritorno dopo moltissimo tempo.
Nell’istante in cui scese dalla barca e mise piede sulla terraferma, Anna fu
invasa da una sensazione di familiarità e benessere. Quel luogo aveva sempre
avuto la capacità di farla sentire accudita, benvoluta e amata.
Quando era bambina e arrivava con la famiglia per le vacanze estive,
l’intero paese si riuniva nel piccolo porto per dare loro il benvenuto. Questo
accadeva prima che il turismo si facesse di massa, quando i visitatori,
sull’isola, erano ancora una novità. Anna si meravigliava sempre del gran
numero di persone con cui suo padre sembrava essere imparentato, in quel
paese, e di quanto gli volessero bene tutti quelli che lo conoscevano da prima
che partisse. La gente accorreva ad aiutarli a tirare giù i bagagli dalla barca e
ad augurare loro un buon soggiorno. «Kalós orisate», gridava, il tipico saluto
di benvenuto. Anna e i suoi fratelli trascorrevano poi alcune magnifiche
settimane a scorrazzare senza freni per l’isola e, quando le vacanze finivano,
nessuno di loro voleva lasciare quella libertà e gli amici per tornare a una vita
da reclusi a Londra. Gli piaceva stare lì, dove sentivano di essere veramente i
benvenuti. La philoxenia, l’ospitalità, è una questione di orgoglio nazionale,
per i greci, e, una volta cresciuta, Anna aveva spesso notato come quella
philoxenia, quell’amore per lo xenos, lo straniero, contrastasse con la paura e
il sospetto dell’ignoto, dell’altro, tanto spesso dimostrati da alcuni britannici.
Quando finalmente Anna e suo padre arrivarono, dopo il lungo viaggio in
barca dal Pireo, il sole di inizio luglio era già alto nel cielo e rovente. Quando
erano partiti, Londra era piovosa e triste, e, mentre Anna aspettava sul molo
che il cugino Manos li aiutasse con i bagagli, il caldo di mezzogiorno sulla
sua schiena cominciava già a sciogliere la malinconia che l’aveva seguita
dall’Inghilterra.
Le persone del luogo che ricordava dall’infanzia erano morte da tempo, e
non c’era alcuna folla a dar loro il benvenuto o ad augurare loro un buon
soggiorno, solo Manos, raggiante di gioia nel rivedere lo zio e la cugina
preferiti. «Kalós orisate!», gridò, abbracciandoli entrambi. Il porto, un tempo
assonnato, si era trasformato in un piccolo scalo animato, pieno di caffè,
ristoranti e bar all’aperto. L’unico luogo rimasto come un tempo era il
vecchio kafeneion – o caffetteria – in un angolo della piazza, dove da oltre un
secolo gli uomini del paese si ritrovavano a giocare a carte, a fumare e a fare
due chiacchiere. Come sempre, gli uomini – i giovani al pari dei vecchi –
erano seduti in gruppetti, a gingillarsi con i loro rosari, fumare e bere,
circondati da una foresta di sedie.
Le sedie sono una parte essenziale della vita del kafeneion. Non vi capiterà
mai di vedere un greco che beve il suo caffè senza averne una collezione
tutt’attorno; occuparne una sola per volta gli riesce impossibile; la dotazione
per persona dev’essere di almeno tre: una su cui sedere, una su cui stendere la
gamba e una terza su cui appoggiare il gomito, lasciando libere le mani per
gesticolare in modo elaborato. Una quarta sedia, su cui posizionare il caffè e
un bicchiere d’acqua, è facoltativa, a seconda della presenza o meno, lì
vicino, di un tavolo. Questo rituale è un fenomeno tipicamente greco, che
Anna aveva osservato fin da molto giovane. Ne aveva spesso chiesto
spiegazione a suo padre, ma per lui era una cosa naturale e logica… Come
farebbe, altrimenti, un uomo, a bere comodamente il suo caffè, mentre parla
con gli amici?
La strada polverosa che saliva la collina verso la casa, non troppo distante
dalla piazza del paese, era eccessivamente lunga da percorrere a piedi con
tutti i loro bagagli. Si snodava tra vigne e uliveti, con magnifici panorami
delle montagne, la baia e il piccolo porto sottostante. La vista della casa
aveva sempre dato ad Anna un certo brivido. Gli arbusti e gli alberi che i suoi
nonni avevano piantato tanto tempo prima erano indissolubilmente legati agli
anni della sua infanzia.
La gente del luogo non aveva dato loro il benvenuto quando erano scesi
dalla barca, poco prima, ma rimediò facendosi trovare a casa al loro arrivo. In
attesa sotto il pergolato ricoperto di vite, c’era la prima cugina di suo padre,
Thia, cioè «zia», Ourania, con una varietà di familiari. Anna aveva sempre
pensato divertita che i greci dovevano avere più parenti degli abitanti di
qualunque altra nazione. Aveva ormai perso il conto di quante persone
chiamasse zia o zio, e di quanti cugini avesse. Per essere precisi, come Max
non mancava mai di ricordarle, nessuno che non sia un fratello o una sorella
di uno dei genitori può essere chiamato a diritto zio o zia. Ma non è così in
Grecia: lì sull’isola erano tutti una grande famiglia felice! La folta vite, la
klimatariá, si intrecciava e attorcigliava alla struttura in legno, arrivando a
coprire tutto il davanti della casa; era carica di enormi grappoli di uva verde,
che sarebbe presto diventata di un viola intenso, pronta da mangiare in
qualche settimana. La tettoia vegetale trasformava lo spazio sottostante in una
camera all’aperto. Un grande tavolo di legno era stato apparecchiato con cibo
e bevande, pronto per una festa di benvenuto in autentico stile greco.
Il padre di Anna, Alexis, era figlio unico e molto legato alla cugina e, dato
che sua nonna era morta prima che lei nascesse, Anna considerava Thia
Ourania la parente femmina più prossima ancora in vita. Ourania non si era
mai sposata, quindi non aveva figli suoi, ma era molto brava con i bambini:
era perfetta come insegnante, lavoro che aveva svolto per una vita e che
amava più di ogni altra cosa; le diverse generazioni di bambini a cui aveva
insegnato sull’isola ricambiavano quell’affetto. Da giovane, quando aveva da
poco cominciato a insegnare, alcuni ragazzi avevano sviluppato persino un
desiderio non proprio platonico nei confronti della loro bella e giovane
insegnante, di poco più grande di loro. In alcune occasioni, quelle
infatuazioni giovanili erano diventate un problema, scatenando non poche
chiacchiere, in paese.
«Che cosa si crede, con quell’aspetto!», esclamavano accusatorie le
malelingue. «Nelle vene di quei ragazzi scorre sangue greco isolano!».
L’avvenenza di Ourania non era colpa sua, né lei la ostentava, ma allo
stesso tempo si rifiutava di recitare la parte dell’insegnante inavvicinabile.
Con il passare degli anni, comunque, non volendo ferire nessuno né
alimentare le fantasie degli studenti o le chiacchiere delle menti retrograde,
era stata costretta a adeguarsi, mettendo via i bei vestiti estivi a motivi floreali
e domando i ricci scuri.
Ourania era alta, più della maggior parte delle donne del paese, e il suo
stesso nome – che significa «venuta dal cielo» – evocava nella giovane mente
di Anna immagini celestiali e poteri paradisiaci. Aveva occhi gentili, del
colore della cioccolata calda, e Anna ricordava come da bambina avesse
segretamente desiderato di strapparle il pettinino che le tratteneva i capelli in
uno stretto chignon, per vederli cadere liberi sulle sue spalle. Era solita
pensare che la zia avrebbe potuto essere bella quasi quanto sua madre, se non
fosse stata tanto seria. Sotto molti aspetti le due donne si somigliavano
parecchio; più o meno stessa altezza e corporatura, bella pelle e una
profusione di capelli scuri. Ma la somiglianza più evidente era proprio negli
occhi: entrambe li avevano grandi, profondamente scuri e malinconici.
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