Il quinto Vangelo – Ian Caldwell

SINTESI DEL LIBRO:
«Lo zio Simon è in ritardo?», chiede Peter.
La nostra governante, sorella Helena, si sta certamente
domandando la stessa cosa, mentre guarda il nasello stracotto nella
padella. Mio fratello doveva arrivare dieci minuti fa.
«Non preoccuparti», gli dico, «piuttosto aiutami ad apparecchiare».
Peter mi ignora. Si arrampica sulla sedia, si mette in ginocchio e
annuncia: «Io e Simon andremo al cinema, poi lo porterò a vedere
l’elefante al Bioparco e dopo lui mi insegnerà come fare la
veronica».
Sorella Helena abbozza un passo strascicato davanti alla padella.
È convinta che il bambino stia parlando di un passo di danza. Peter
inorridisce. Alza una mano e, come un mago che lancia un
incantesimo, dichiara: «No! È un tipo di dribbling! Come Ronaldo!».
Simon è in volo dalla Turchia a Roma per una mostra curata da un
nostro comune amico, Ugo Nogara. La sera dell’inaugurazione,
prevista tra una settimana, ci sarà un ricevimento ufficiale, e io
stesso non avrei trovato il biglietto per entrare se non avessi lavorato
con Ugo. Ma sotto questo tetto viviamo nel mondo di un bambino di
cinque anni: zio Simon è tornato a casa per dargli lezioni di calcio.
«C’è di più nella vita», commenta sorella Helena, «che tirare calci a
un pallone».
Si è assunta la responsabilità di essere la voce femminile della
ragione in questa casa. Quando Peter aveva undici mesi, mia moglie
Mona ci ha lasciati, e da allora quest’incredibile e anziana suora mi è
stata di grande aiuto nel mio ruolo di padre. Ce l’ha mandata zio
Lucio, che ha schiere di suore al proprio servizio, e io fatico a
immaginare cosa farei senza di lei, dal momento che non posso
permettermi nemmeno la paga di una giovane baby-sitter. Per
fortuna, sorella Helena non lascerebbe Peter nemmeno per tutto
l’oro del mondo.
Mio figlio sparisce in camera sua e torna con una sveglia digitale.
Con lo stile diretto ereditato dalla madre, la posa sul tavolo davanti a
sé e la indica con il dito.
«Tesoro», lo tranquillizza Helena, «probabilmente il treno dello zio
Simon è un po’ in ritardo».
Il treno, non lo zio. Perché Peter avrebbe difficoltà a capire che
certe volte Simon si dimentica i soldi del biglietto o si intrattiene a
parlare con degli sconosciuti. Mona non aveva nemmeno voluto
mettere il suo nome a nostro figlio, perché lo considerava
imprevedibile. E anche se mio fratello riveste l’incarico più
prestigioso cui possa ambire un giovane prete – è un diplomatico
presso la Segreteria di Stato della Santa Sede, l’élite della
burocrazia cattolica – la verità è che ha bisogno di caricarsi di lavori
estenuanti. Come tutti gli uomini del lato materno della famiglia,
Simon è un cattolico romano, perciò non si sposerà mai, né avrà dei
bambini e – a differenza di altri preti del Vaticano, nati per il lavoro
d’ufficio e dal girovita generoso – ha un animo irrequieto. Mona, che
Dio la benedica, voleva che nostro figlio fosse affidabile, tranquillo e
soddisfatto come suo padre. Così, al momento di sceglierne il nome,
avevamo raggiunto un compromesso: nei Vangeli Gesù incontra un
pescatore di nome Simone, che rinomina Pietro.
Prendo il cellulare e mando un messaggio a Simon – Stai
arrivando? – mentre Peter ispeziona il contenuto della padella di
sorella Helena.
«Il nasello è un pesce», annuncia, così dal nulla. È nella fase in cui
gli piace classificare le cose. E detesta il pesce.
«A Simon piace molto», gli dico. «Da piccoli lo mangiavamo
spesso».
A dire il vero, da bambini mangiavamo il merluzzo, non il nasello,
ma lo stipendio di un prelato non permette altro al mercato del
pesce. E come Mona amava ricordarmi quando preparavamo pranzi
come questo, mio fratello – che è una spanna più alto di tutti i
sacerdoti che risiedono dentro queste mura – mangia sempre per
due.
In questo periodo penso a Mona più del solito. L’arrivo di mio
fratello sembra sempre portare con sé il fantasma della partenza di
mia moglie. Sono i poli magnetici della mia vita e uno resta sempre
in agguato nell’ombra dell’altro. Mona e io ci conoscevamo sin da
bambini, e quando ci eravamo incontrati di nuovo a Roma, ci era
sembrata la volontà del Signore. Ma ci eravamo trovati davanti a un
dilemma: i preti d’Oriente devono sposarsi prima di essere ordinati o
non sposarsi affatto e, a pensarci adesso, probabilmente a Mona
serviva più tempo per essere pronta. In Vaticano la vita di una
moglie non è semplice, e quella della moglie di un prete lo è ancor
meno.
Mona aveva continuato a lavorare a tempo pieno fin quasi al giorno
della nascita del nostro bambino dagli occhioni azzurri, l’appetito di
un lupo e la poca voglia di dormire. Lo allattava così spesso che
trovavo il frigorifero svuotato dai suoi tentativi di nutrirsi.
Solo più tardi avrei messo a fuoco: il frigo era vuoto perché aveva
smesso di fare la spesa. Non l’avevo notato perché non faceva più
pasti regolari. Pregava meno, cantava meno a Peter, e poi, tre
settimane prima che nostro figlio compisse un anno, era scomparsa.
Avevo scoperto una boccetta di pillole nascosta dietro una tazza sul
fondo di un armadietto. Un medico dei servizi sanitari del Vaticano
mi aveva spiegato che aveva cercato di guarire dalla depressione.
«Non dobbiamo abbandonare la speranza», aveva detto. Così io e
Peter avevamo aspettato che Mona tornasse. E aspettato, e
aspettato ancora.
Lui giura di ricordarsela. Questi ricordi, però, non sono altro che
dettagli estrapolati dalle fotografie sparse in giro per l’appartamento,
che poi integra con le cose che vede in TV o nelle pubblicità sulle
riviste. Non ha ancora notato che le donne nel rito greco non portano
rossetto e non si mettono il profumo. Purtroppo, la sua esperienza
della Chiesa è quasi quella cattolica romana: quando mi guarda,
vede un prete solo e celibe. Le contraddizioni sulla sua identità,
tuttavia, sono riservate al futuro. Comunque, ricorda sempre sua
madre nelle preghiere, e ho sentito dire che anche Giovanni Paolo II
faceva lo stesso dopo aver perso la madre in giovane età. Questo
pensiero mi dà conforto.
Finalmente il telefono squilla. Sorella Helena sorride, mentre mi
sbrigo a rispondere.
«Pronto?».
Peter mi guarda nervoso.
Mi aspetto di sentire in sottofondo il rumore di una stazione della
metro o, peggio, di un aeroporto. Ma non è così. La voce all’altro
capo è debole, distante.
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