Il ritorno degli dei – Nick Laird

SINTESI DEL LIBRO:
«Pronto».
«Ci serve del latte? Il giornale l’hai preso?»
«L’ho preso, sì».
Kenneth aprì il frigo.
«Abbiamo... mezzo cartone di parzialmente scremato».
«C’è per caso del latticello?»
«Vuoi fare il soda bread?»
«Avevo intenzione di farlo».
«Non mi pare di vederne».
«Prendo dei pancake alla mela per Liz. Per caso i tipi del tendone
si sono fatti vivi?»
«Non ancora. Sul Telegraph ho visto la pubblicità di pantaloni con
la vita elasticizzata...»
«Ce li ho già».
«Mi sembrano molto convenienti».
Judith fece un sospiro: «Se voglio comprarmi dei pantaloni
elasticizzati vado da Cunningham e me li com...»
«Sto solo dicendo che questi qui mi sembrano convenienti.
Costano ventinove e novantanove. E sono di tutti i colori. Rosa
salmone. Malva. Cunningham a quanto li vende? Il doppio? Il
triplo?»
«Perché non te ne ordini un paio per te?»
Stavolta fu Kenneth a sospirare. Il fatto che Kenneth fosse
sovrappeso non era in discussione, ma se c’era qualcuno che aveva
bisogno di pantaloni elasticizzati era proprio Judith: l’escrescenza
mortale nascosta di cui erano venuti a conoscenza dopo le
radiografie adesso era diventata una presenza fisica, sbucava da
sotto le cinture, e i cardigan non bastavano più a coprirla. Facendo
riferimento alla cosa per primo, sebbene indirettamente, suo marito
aveva appena infranto una regola non scritta. Judith non aveva
bisogno che le venisse ricordato. Se voleva parlarne lo decideva lei.
«Liz ha chiamato?», chiese dirottando la conversazione su un
altro argomento. All’altro capo del filo Kenneth sentiva il motore di un
trattore che girava nei pressi della macchina di sua moglie, e la
mano di lei che picchiava impaziente sul volante.
«No».
«Si aspetta che andiamo a prenderla in aeroporto?»
«Be’, è una donna adulta, direi, sono certo che se così fosse ce lo
farebbe sapere».
«Sono a casa tra cinque minuti», disse Judith.
Dopo qualche istante Kenneth disse: «Ti lascio comunque la
rivista in giro così puoi dare un’occhiata, se ti va».
Judith emise l’ultimo e quindi definitivo sospiro di quella
conversazione.
Kenneth ricollegò il telefono al caricabatteria. Sentì di nuovo il bip
bip bip e ricordò il motivo per cui era fermo in cucina. Aprì lo
sportello della lavastoviglie, avvertendo una fitta al legamento del
gomito. No, non era la lavastoviglie. L’odore funesto di marciume del
pasticcio di pesce del giorno prima. Spinse lo sportello del frigo per
controllare che la guarnizione fosse intatta e fuori, sul prato del retro,
dietro il giardino giapponese, vide una chiazza beige. Con una mano
si portò gli occhiali da lettura sulla fronte, e con l’altra si posò sul
naso quelli per miopia. In mezzo all’erba c’era un coniglio, che
masticava con aria stupida e insolente.
Kenneth picchiò sul vetro della finestra col sigillo dell’anello d’oro.
Due cince more volarono fuori dalla mangiatoia degli uccelli,
lambirono l’asfalto e si posarono di nuovo. Ma il coniglio non si
mosse. Gnam gnam. Sniff.
Kenneth picchiò di nuovo sul vetro. Sniff. Occhiata. Niente. Per un
attimo Kenneth si dimenticò della «presenza guida» sulla quale
stava lavorando da settembre con Theresa, la loro terapista, per
riuscire a raggiungere «la giusta consapevolezza» che gli avrebbe
permesso di guidare il timone di quella barca, che era lui stesso, tra
le infide correnti di «questa nuova vita». Batteva con forza esplosiva
sulla finestra con il lato del pugno.
Il coniglio puntò lo sguardo verso la casa, ma alla fine decise che,
no... a pensarci bene declinava l’offerta. Gnam gnam. Kenneth
aveva la base del palmo indolenzita, ma per breve tempo si era
sentito sollevato da quello sbattere una cosa contro un’altra cosa.
«La rabbia», secondo Theresa, «viene dal sentirsi impotenti». Be’,
sì. Bip bip bip. Un’improvvisa intuizione: Kenneth superò di corsa il
tavolo e spinse il grosso pulsante del microonde. Lo sportellino si
aprì di scatto rivelando una chiazza vagamente spermatica: farina
d’avena incrostata sul piatto tondo di vetro smerigliato. Ma no, non
era il microonde. Si sedette in punta al divano, e aspettò. Non un
rumore nella stanza. Si alzò e aspettò, e nella stanza non c’era alcun
rumore. Tornò in cucina e si fermò davanti alla finestra: guardò fuori,
e aspettò. Bip bip bip.
Il cielo sopra le colline lontane era pesante di pioggia che presto
sarebbe caduta. Sidney, il fratello maggiore, di lì a un’ora avrebbe
riportato dentro il bestiame. Si sarebbe inzuppato d’acqua.
Bip bip bip.
In ogni stanza della casa c’era qualcosa che stava morendo, che
reclamava attenzione o che chiedeva di essere curata, trattata
amorevolmente e riportata in forze. Dietro il coniglio, sul fianco della
collina nel campo di McMullens, il traliccio, il vettore di tutta
quell’energia, stava con le braccia allargate come san Kevin,
l’espressione di un dolore senza fine, portando la novella del calore
e della luce a tutte le brave persone di buona volontà che pagavano
le bollette. All’altezza della siepe di faggio il palo del telegrafo
incontrava un cavo nero di considerevoli dimensioni e lo
accompagnava nel terreno dove s’infilava in una serie di tubi
compositi sotto il prato ben rasato e le aiuole di fiori dai colori vivaci,
una fila di patate piantate lungo il recinto rivestito di bitume, i tre meli
dal tronco ricurvo, l’asfalto e il pavimento del patio riverniciato di
fresco, per poi sbucare di nuovo in superficie all’altezza della porta
sul retro, in mezzo ai fili rivestiti di gomma sulla parete, aggirando i
circuiti del portafusibili e arrivando a casa sua per alimentare quel
cazzo di bip la cui origine continuava a sfuggirgli.
Sentì il rumore della grata antibestiame e un istante dopo la Volvo
di Judith sbucò dal retro della casa. Il coniglietto schizzò via sull’erba
a tutta velocità infilandosi nella siepe di faggio. Kenneth trovò un che
di soddisfacente nella natura definitiva di quel movimento – nel
modo in cui le foglie ramate fagocitarono quella codina a bottoncino.
La cosa che gli piaceva di più era vedere i problemi che si
dissipavano da soli. Pensò a Liz, la figlia maggiore, che gli andava
incontro da una distanza di venticinque anni, dalla cunetta del
campo dietro la casa di Faulkner, riportandogli un coniglio a cui
Kenneth aveva appena sparato. Il braccino sottile e proteso della
bambina, il coniglio che penzolava tenuto per le orecchie, con un filo
di pipì che ancora gocciolava. Ricordava sua figlia che si ritraeva
dalla bestiola, con la bocca serrata e la concentrazione di chi non
vuole tradire nessuna emozione. Aveva sparato nella parte
posteriore dell’animale, il pallino era entrato dalla schiena. Mentre
Liz avanzava, dalla coda si staccavano pezzi di lanuggine bianca
come semi di soffione.
Mise su il bollitore e ci poggiò le dita finché non cominciarono a
fargli male per il calore. Che ore erano? Le undici? E un quarto. Si
sentiva assonnato e pesante, come sul punto di cadere in avanti sul
bancone. Fece un accenno, lasciando che la pancia spingesse
leggermente contro il bordo smussato. Un calendario della missione
New Truth era appeso a un chiodo vicino alla finestra; un bimbetto
nero gli sorrideva direttamente dall’Africa, felicissimo di ricevere
qualche misero spicciolo di quelle otto sterline che Kenneth inviava
mensilmente con l’addebito diretto. Il bambino aveva una testa
perfettamente tonda, e occhi perfettamente tondi con pupille
perfettamente tonde, cerchi neri dentro cerchi bianchi dentro un
cerchio nero...
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