Il ritmo perfetto – Jordan Marie

SINTESI DEL LIBRO:
Il problema di vivere in un paesino è che tutti conoscono tutti. Io vivo
qui da sempre. Non è stato bello, ma non è stato brutto. Non avevamo
molto, eravamo solo io e Banger. Banger era mio padre. Be’, più o meno.
In effetti era il vecchio con cui la mia donatrice di utero conviveva. Lei era
scappata con un venditore ambulante di aspirapolvere quando avevo sette
anni, e da allora c’eravamo stati solo io e Banger. Sì, so che la mia vita è
stata un cliché. Lo accetto. Banger era stato un prigioniero di guerra. Era
una montagna d’uomo, grosso, barbuto e ringhiante, che non mi ha mai
fatta sentire indesiderata. Non sapeva molto sull’avere dei figli, meno che
mai figlie, ma ce la siamo cavata.
A dieci anni ero in grado di cambiare l’olio, invertire gli pneumatici e
ricostruire un carburatore. A quindici sapevo rimontare un motore. Ero
una maestra delle trasmissioni a sedici anni. Banger diceva che avevo un
talento naturale, ma in realtà volevo solo renderlo fiero di me. Possedeva
l’unica autofficina del paese e volevo essere certa di aiutarlo quanto più
potevo.
Scoprì di avere il cancro il giorno del mio diciassettesimo compleanno.
Ci ubriacammo assieme. Banger era tante cose, ma non era uno che si
preoccupava della legalità o delle regole della società. Forse è una delle
cose che più amavo di lui. Morì l’estate in cui compii diciannove anni e in
qualche modo mi ritrovai a farmi carico dell’officina. Ora, a ventisei anni,
la gente di Crossville, Kentucky, mi conosce piuttosto bene. Hanno
imparato a fidarsi del mio lavoro, e l’officina Claude è sempre impegnata.
È così che mi chiamo, a proposito. Claudia Cooper. Banger mi ha sempre
chiamata Claude e il nome mi è rimasto addosso. Se mai mi ha infastidita,
ormai ho imparato ad accettarlo. Ho scoperto che dalla vita bisogna
prendere quello che ti dà. Le cose potrebbero sempre andare peggio.
Ma torniamo al perché sono a Lexington stanotte. Lexington è forse la
città più vicina a Crossville. Mi ci vogliono almeno tre ore di auto per
arrivarci. Ci vengo solo ogni tanto, e per una ragione precisa: se non
fuggissi da Crossville di tanto in tanto, probabilmente finirei per diventare
uno di quei casi di follia di cui si parla al telegiornale delle diciotto. In
effetti sto rendendo un servizio al pubblico. La gente dovrebbe essermi
grata.
«Pronta a una ricarica, bellezza?».
Sorrido al barista, che è in effetti l’unica ragione per cui sono rimasta in
questo locale. Non è il mio genere. Sono più tipa da bar dei motociclisti,
come quello circa tre traverse più avanti. Tuttavia, uno dei miei clienti mi
ha consigliato questo posto perché fanno musica dal vivo il sabato sera,
perciò mi sono detta “al diavolo”. Dopo dieci minuti che ero entrata,
quando la band ha iniziato a cantare un pezzo dei Black-Eyed Peas che
ricordavo a stento, ho capito di essere nei guai. È stato allora che Mr
Spilungone mi ha sorriso: jeans sbiaditi e strappati, T-shirt nera e capelli
ricci color sabbia scura. Mi ha portato da bere e sono rimasta qui. Certo,
mi ha portato da bere perché è il barista, ma continua a guardarmi le tette.
Penso sia piuttosto chiaro quello che sta succedendo.
«Spara», gli dico, rivolgendogli un sorriso spontaneo. Spontaneo
perché dopo un bicchiere di whisky seguito da uno di whisky e coca sono
piuttosto rilassata… al punto che, dopo quest’altro bicchiere, sono sicura
che il mio culo si troverà un albergo in cui dormire per stanotte. Magari
riesco a convincere il barman a venire con me. Non giudicatemi. L’ultima
volta che ho fatto sesso, ne sono piuttosto sicura, è stata due presidenti fa.
Se volete fare i conti, parliamo di sei anni. Sei anni. Le donne possono
dire quello che vogliono dei vibratori, ma quegli affari non potranno mai
in nessun caso prendere il posto del sesso vero. E questo ragazzo che
continua a sorridermi dà proprio l’idea di saperne qualcosa di sesso vero.
«Diavolo, piccolo. Hai da fare stasera…», esordisce una voce profonda
davanti a me. Quando alzo lo sguardo, c’è un altro uomo che sembra
essere appena uscito dalle pagine della rivista Sexiest Man Alive e che sta
parlando, purtroppo, al barista su cui avevo messo gli occhi. Si scambiano
un bacio breve, ma intenso. Piango un po’ dentro di me, abbandonando il
mio sogno di passare la notte con lui, e torno al mio bicchiere.
Quel vecchio detto sul fatto che tutti i migliori siano sposati o gay è
terribilmente vero. Deve essere per questo che io sono ancora single e il
mio amico Raymond ha uno splendido ragazzo a casa.
«Posso offrirtene un altro, labbra di zucchero?».
Labbra di zucchero?
«Direi di no», rispondo, alzando a stento lo sguardo. Non importa che
aspetto abbia: essere chiamata labbra di zucchero è sufficiente a spegnere
il mio interesse in partenza.
«Uno scotch per me e un altro di… qualunque cosa stia bevendo, per la
signora».
«La signora sta bene così. Insistente, eh?».
«A volte paga esserlo», mi dice, e infine la sua inflessione da
campagnolo e la sensazione da “oh, che bravo ragazzo” mi fanno alzare gli
occhi. È alto e robusto, con capelli castani tagliati cortissimi, una barba da
cinque del pomeriggio, scura abbastanza da essere quasi le sei, occhi
castani e un volto che sembra essere stato scolpito nella roccia. Un dio,
forse. È talmente carino. Anche se accende ogni parte femminile di me, il
suo bell’aspetto è un deterrente. Sono uscita con un ragazzo perfetto in
passato. L’unica cosa a esserlo davvero però era il suo riflesso nello
specchio. Non voglio ripercorrere quella strada… mai più.
«Ero proprio sul punto di andarmene», gli dico, e non è una vera bugia.
«Resta ancora un po’. Sei la prima cosa che vedo stasera a darmi una
ragione per essere in questa città. Come ti chiami?».
«Be’, sicuramente non “labbra di zucchero”», gli dico, prendendo il
bicchiere che il barista dei miei sogni, per quanto gay e impegnato, poggia
sul bancone. Il tipo sorride al mio commento e si siede accanto a me, poi
si sporge nella mia direzione come se fossimo amanti separati da tempo.
Cerco di ignorare il suo odore, ma lo trovo alquanto impossibile. Ha
addosso una colonia che non ho mai sentito. Deve alimentare ogni mio
singolo feromone perché, unita al suo rude odore maschile, sta rendendo
una donna come me ubriaca… ed eccitata. Pericolo. È senza dubbio
pericoloso. Potrà anche andarmi un po’ di divertimento, ma questo tipo
sembra urlare “playboy”… e playboy ricco, oltretutto. Il barman è molto
più il mio tipo. Non che io sia una snob. Tutto il contrario, direi. Anzi,
trovo che la gente ricca sia davvero insopportabile.
«Però scommetto che le tue labbra sono dolci, bellezza».
Insopportabile… anche se i tipi come lui sono carini quando cercano di
portarti a letto. Mi appoggio a lui facendo un sorriso, poi mi passo
abbondantemente la lingua sulle labbra.
«È qualcosa che non scoprirai mai», sussurro, e bevo un altro sorso dal
mio bicchiere.
Lui si blocca per un istante, come se la mia risposta lo avesse sconvolto,
poi mi rivolge un ampio sorriso che gli fa perfino brillare gli occhi castani.
Cazzo.
«Mi sono sempre piaciute le sfide», dice, e percepisco l’eccitazione
vibrare dentro di me. Sento gli allarmi e i campanelli di pericolo che
suonano… ma non sembro in grado di smettere di guardarlo negli occhi.
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