Il forte sul fiume – Jack Whyte

SINTESI DEL LIBRO:
Cartina della Britannia con alcuni
nomi (N.D.S.) Prologo
Ricordo quando, per la prima volta,
Artù Pendragon mi chiamò per
nome. Non aveva ancora due anni e
non riusciva a pronunciarlo bene,
ma non fummo delusi del risultato,
né io né lui. «Mellino», mi chiamò
chioccolando divertito a quel suono,
e "Mellino" rimasi a lungo fino a
quando non fu trascorso il tempo
necessario perché gli riuscisse di
padroneggiare la "r", un suono per
lui nuovo, richiesto dal mio nome.
Ricordo anche l'ultima volta in cui
mi chiamò per nome, levandosi dal
giaciglio e afferrandomi il braccio,
gli occhi sbarrati per lo sgomento
davanti all'inesorabile violenza di
quell'improvviso strappo interno che
gli portava via la vita. «Merlino?»
rantolò e morì con il mio nome sulle
labbra.
Sono passati anni da quel giorno
crudele e io sono ancora qui, l'unico
sopravvissuto di quel luogo che gli
uomini chiamavano Camelot, l'unico
depositario, in tutta questa terra di
Britannia, della conoscenza che qui,
un tempo, fiorì e dei sogni di libertà
di un intero popolo.
La solitudine è nella sua essenza una
maledizione. L'uomo non è destinato
a vivere da solo, non deve essere
costretto per sentire una voce umana
a urlare con forza di tanto in tanto.
Ci penso ormai da due giorni,
riandando con il pensiero alle
conversazioni, ai diverbi, ai dibattiti,
alle canzoni, quelle intonate con
voce possente e quelle sussurrate
con dolcezza. Tutti i miei ricordi si
sono contratti riducendosi a due
momenti: la prima e l'ultima volta in
cui il re mi chiamò per nome.
Oggi, credo, il mio è un nome
sconosciuto agli uomini e alle donne
che vivono in questa terra. Altrove -
nell'Eire o in Gallia, la terra dei
Burgundi e delle orde incalzanti che
vengono chiamate Franchi - forse
ancora esiste, almeno così spero e
auspico, chi pensa a me con
simpatia. Ma qui, in Britannia, se
mai qualcuno ancora mi ricorda, è
con paura e soggezione, perché io
ero Merlino, il mago e lo stregone,
che conosceva dèi tenebrosi e
misteri ancora più tenebrosi. Non
vive nessuno oggi in questa triste
terra che mi rammenti diversamente.
Sono morti tutti quei pochi che mi
conoscevano a sufficienza per
vedere oltre la paura, tutti i miei
amici, tutti coloro che amavo.
Eppure, lasciando da parte la
commiserazione - un sentimento
impotente e oggi, nella mia vita,
un'indulgenza più che un vizio -
provo profonda gratitudine per
essere solo, libero di attendere al
mio compito senza ostacoli. Rimane
da raccontare qualcosa che nessuno
ha mai raccontato. E quanto ho da
raccontare è strettamente legato al
mio nome, perché lungo i
cambiamenti del nome scorrono i
capitoli della mia vita e della vita del
re, Artù.
Quando si è soli, su che cosa si
riflette se non su se stessi? Penso di
avere da tempo abbandonato
l'autoanalisi che ha ipotecato tanti
anni della mia vita, vanità del tipo
più squisito. Non si possono
annullare le azioni compiute: le
conseguenze sono ineluttabili.
Ho sempre cercato di essere risoluto.
Meglio una decisione solidamente
radicata nell'errore che un'occasione
irrimediabilmente perduta a causa
della titubanza, diceva mio padre, e
io gli ho creduto. Mi insegnò a
soppesare gli elementi di prova e a
confermarli con i fatti - fatti concreti
e oggettivi - per poi prendere una
decisione ferma basandomi sulle
probabilità. Così ho sempre fatto o
cercato di fare.
Perfino in questo momento, nel
mettere sulla pagina la mia versione,
mi chiedo come abbia potuto a volte
essere così cieco e ottuso, come
abbia potuto commettere certi errori
e come non mi sia posto tante
domande. Sì, ero giovane, dovevo
imparare molte cose, avevo la
speranza e il vigore della
giovinezza. Sapevo quello che
desideravo e quello che il mondo
voleva da me per Artù, per Camelot,
per me stesso. Vedevo lo scopo, ci
credevo fermamente e, pur non
avendo i mezzi per conseguirlo,
avevo fede che Dio, la vita, la santità
dell'impresa mi avrebbero dato il
tempo e la forza per portare a
compimento il nostro Sogno. Ho
commesso alcuni errori, ma di rado
sono stati gravi.
Il mio scopo era semplice, la sua
realizzazione difficile: dovevo fare
di un ragazzino un uomo, dovevo
insegnargli a intraprendere
un'impresa quale mai era stata
compiuta da nessuno. Dovevo far
fiorire un regno dove c'era soltanto
una colonia; dovevo guidare un
popolo verso una nuova età di
meravigliosa speranza. E dovevo
esercitare sulla mia vita uno stretto
controllo per rendere possibile tutto
ciò.
E mentre tutto ciò accadeva io non
ne ero consapevole. Cercavo solo di
dare consiglio, di avanzare passo a
passo. Non avevo allora la piena
coscienza del significato e della
portata dell'impresa.
Cercavo di fare il mio dovere; il
dovere governava la mia vita.
Nell'insieme ci sono riuscito. Ho
commesso errori, ho avuto
esitazioni, ma ho imparato a ogni
passo. Ho visto il coronamento
dell'impresa e l'ho vista vanificarsi,
spazzata via dall'incurante mano di
Dio e dell'uomo. Sono
sopravvissuto. A quale fine? Per
narrare ogni cosa a beneficio di uno
sguardo che forse non si poserà mai
sulle mie parole? Voglio scuotermi
di dosso tale disperazione e
continuare la mia cronaca.
Il giorno in cui ebbe inizio questo
capitolo della mia storia, un giorno
al quale mi avvicino con
trepidazione e incertezza, Merlino il
mago non esisteva. L'uomo che
allora così si chiamava era ancora
giovane, si approssimava appena ai
ricchi anni della maturità. Io ero
Caio Merlino Britannico, consigliere
e comandante legato degli eserciti di
Camelot, Merlino per tutti, e Caio
per gli amici intimi e i familiari. Nel
frattempo la mia famiglia era quasi
estinta, ridotta ormai, con la morte
della vecchia zia Luceia, a
comprendere soltanto un bambino,
che mi era cugino e nipote, e un
fratellastro di soli sei mesi più
giovane di me, il figlio che mio
padre aveva avuto da un'altra donna.
Avevo cugini in Cambria, ma erano
lontani, in ogni senso del termine.
Pochi erano gli amici e le persone
care, come accade alla gran parte
degli uomini, ma mi erano tutti
vicini quel giorno...
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