Il grande futuro – Giuseppe Catozzella

SINTESI DEL LIBRO:
Se è con la luce che la vita si presenta, io nacqui due volte.
La prima volta fui Alì, e nascendo seppi tutto quello che c’era da
sapere: che l’unica legge che governa la vita è la legge dell’amore.
La seconda fui Amal, che significa speranza, e rinascendo
cancellai ciò che sapevo. Poi impiegai tutta la vita a ricordarlo.
Luce su luce, dice il testo sacro. Nurun ala nur.
E così, per me, fu.
Il giorno della seconda luce e del Grande Boato mi trovavo dove
non avrei dovuto: ai confini del villaggio, là dove c’era posto per
l’ultima moschea soltanto, che sovrastando tutto aveva aperto il
raccoglimento al silenzio del deserto e all’infinità del mondo. Ora non
veniva più usata, i fedeli si radunavano in quella nuova, giù al
villaggio.
L’adhan, il richiamo alla preghiera, lassù risuonava nel vuoto, e
per questo era sempre sembrato più puro: simulava il silenzio.
Mi trovavo nel posto proibito, sul retro dell’edificio sacro. Là dove il
baobab secolare largo e basso faceva ombra sullo spiazzo, e si
diceva che i primi pellegrini si fossero fermati in cerca di ristoro. Era
un luogo sacro e non doveva essere profanato.
Fatima, mia madre, quel giorno me l’aveva detto: “Non andare fin
là”.
Io non avevo risposto e mi ero arrampicato sull’altura insieme ad
Ahmed – il ricco, il figlio del signore, il mio migliore amico – e a
Karima – la serva, la mia pari.
Mio padre, il silenzioso e rugoso Hassim, era fuori come sempre
con il suo dhow di legno, per la pesca.
Come ogni volta che ci arrampicavamo fin lassù per lo scosceso
sentiero di terra sabbiosa e rossiccia, nel fitto del bosco di sequoie
che saliva alla cima dell’isola, Karima si era fermata a fissare il mare.
Era blu, era vasto, era calmo.
Erano giorni di Iid, la festa di fine Ramadan, che quell’anno era
stato nominato “Ramadan di sangue”: giornate infinite di fuoco
feroce e incrociato tra l’Esercito Regolare e i Neri, coloro che in una
mano impugnano il fucile e nell’altra il libro sacro.
Da sotto, dal villaggio, sulla riva, i razzi nella notte disegnavano
scie luminose.
Su alla moschea si diceva si fermassero talvolta a dormire, i Neri.
Si diceva usassero l’altura come strategia.
Quella mattina, al risveglio, ognuno di noi tre aveva alzato la testa
e aveva guardato, dalla propria casa, il profilo delle colline, dalla
parte opposta del mare: nessun filo di fumo era visibile. I Neri non
erano alle porte del villaggio, non avevano acceso fuochi per dormire
sulla sabbia del deserto di là dalle case abitate, alla maniera dei
beduini.
Venimmo fuori in fila indiana dall’ultima svolta della serpentina del
sentiero. Ci appiattimmo a terra, sull’erba verde e folta, a guardare
verso la costruzione sacra.
Non arrivavano suoni, non c’erano movimenti.
Ahmed si mise in ginocchio e, silenzioso, partì in perlustrazione.
Karima vibrò di terrore.
Io l’abbracciai e non mi mossi.
Mai avremmo potuto immaginare, io e Ahmed, quel pomeriggio,
che molti anni dopo ci saremmo ritrovati a combattere quella stessa
guerra, uno dalla parte dei Neri e l’altro da quella dell’Esercito
Regolare. Se qualcuno ce l’avesse rivelato, l’avremmo guardato
come pazzo.
La guerra era una cosa presente, l’inaudito era divenuto
quotidiano, e come tutto ciò che è quotidiano ci apparteneva nella
carne e non nel pensiero.
I Neri invadevano il villaggio a loro piacere, e lo stesso facevano i
Regolari. Arrivavano, perlustravano, razziavano, andavano: divenire
guerrieri noi stessi, per di più nemici in guerra, sarebbe stato
impossibile, come la luna che una notte decidesse di non salire.
Ahmed non ci badò, s’avvicinò piano alla piccola moschea. Tirò la
porta e l’aprì, senza entrare. Girò la testa verso di noi: dentro non
c’era nessuno. S’avviò verso destra, fece il giro della costruzione e
rispuntò dal lato sinistro. Di nuovo nessuno.
Si poteva giocare.
Giocavamo a ostgmah, nascondino.
Ahmed era più grande e vinceva sempre, le sue gambe erano più
lunghe.
Decisi di usare l’astuzia, nascondendomi dove era proibito.
Nessuno m’avrebbe visto, nessuno avrebbe saputo.
Era Ahmed a contare, e fino al baobab non si sarebbe spinto.
M’avrebbe cercato a lungo nella moschea e tra le sequoie, poi
rassegnato avrebbe gridato al vento che s’arrendeva, che avevo
vinto. Karima non avrebbe avuto niente da ridire.
M’avvicinai piano all’albero sacro, facendo attenzione a non far
muovere nemmeno una foglia. Da lontano, arrivava attutita la voce di
Ahmed che veloce scandiva i numeri prima di scattare a cercarci.
Mi muovevo come fanno i gatti, al rallentatore, silenzioso. Davanti
a me, il baobab era immenso.
Con la coda dell’occhio vidi Karima accucciata dietro una siepe
bassa, Ahmed l’avrebbe scoperta all’istante. Mi guardò con occhietti
colmi di terrore: non avrei dovuto fare ciò che stavo facendo.
Raggiunsi i piedi del gigantesco tronco.
L’ultimo passo, poi mi sarei arrampicato e nascosto tra le fronde.
D’un tratto, come una sensazione che non apparteneva al mio
corpo, percepii il terreno che cedeva appena sotto i piedi.
Un niente, un minuscolo sprofondare.
Attorno, totale silenzio.
Fu un istante improvviso: tutto cambiò.
Accadde il Grande Boato, e la luce infinita m’accecò.
Al risveglio ero a pancia in su.
Sdraiato nell’ospedale della grande città, il dolore era ovunque.
Avevo mani e piedi al loro posto, quello fu il mio primo pensiero, ero
vivo.
L’esplosione era stata tanto potente e il mio peso talmente poco,
che mani invisibili m’avevano afferrato e scagliato dieci metri più in
là. La mina aveva invece sventrato il sacro baobab, spargendo
proiettili di dura corteccia tutt’attorno.
Una scheggia m’aveva centrato il petto e s’era conficcata tra i
polmoni, scalfendo il cuore. Il muscolo che pompava sangue dentro
il mio corpo era stato intaccato.
Avevo subìto un intervento. Stranieri erano lì da qualche anno per
situazioni come la mia: ferite di guerra.
Mi ritrovai con un pezzo di cuore di una bambina bianca, una
cristiana, nel petto.
Così dissero a mia madre: arrivava da una piccola donatrice.
“Nera?” chiese.
“Bianca,” risposero.
Fatima era accanto a me, e pregava Allah, e ringraziava Dio per
aver salvato suo figlio.
Da allora non fui più Alì.
“D’ora in avanti sarai Amal, speranza,” disse mia madre
carezzandomi i capelli. “Io ti ho dato il primo nome, io ti do il
secondo.”
Rimasi in silenzio, mortificato dal dolore.
“Se sei rimasto vivo vuol dire che c’è una speranza. E tu sarai
quella speranza, finché vivrai. Sarai Amal. Luce su luce.”
“Nel petto ho il cuore di una cristiana, porto il cuore del nemico,”
disse Amal.
“Soltanto una valvola,” disse mia madre.
“Ma mi batte dentro il cuore del nemico,” ripetei.
“No, ti batte il tuo.”
“Uomini bianchi, cristiani, hanno aperto il mio petto e ci hanno
infilato il cuore del nemico. Perché mi avete fatto questo? Non
potevate lasciarmi morire?” dissi con un filo di voce.
“Non saresti morto, solo avresti fatto fatica a vivere,” rispose mia
madre.
“Farò più fatica così” furono le ultime parole di Amal, per quel
giorno.
“Ricordati della tua fitra, e prenditene cura. Il resto non conta,”
disse mia madre.
E intendeva il soffio divino che anima ognuno di noi, e lo fa
aspirare alla pace.
Amal chiuse gli occhi e cercò, con dolore, di prendere sonno.
Quando uscii dalla convalescenza, avevo sul petto una lunga
cicatrice spessa due dita. A chi apparteneva il mio cuore? Fui
afferrato da questo pensiero. Nel modo misterioso in cui si
manifestano alcune cose, sentii che quell’interrogativo m’avrebbe
accompagnato per tutta l’esistenza.
Perché dovevo ospitare quell’energia nemica in corpo, essere
diviso in due? Mi avevano messo dentro la guerra.
Quando mia madre aveva visto la cicatrice, finalmente libera dalle
fasciature, non aveva potuto non pensare al profeta Maometto, che
ne portava una simile sulla schiena.
Si diceva che due uomini vestiti di bianco, quando il Profeta non
era che un bambino, avessero estratto il suo cuore e l’avessero
purificato con la neve.
A Fatima, mia madre, tanto bastò per credere che suo figlio, Amal,
io, fosse speciale.
Fui speciale per davvero: quel cuore di bambina m’indebolì. Col
fiato corto, imparai a fingere normalità.
Non è normale, un cuore che perde battiti quando più
servirebbero: il mio, da allora, prese ad agire così. Il dolore mi
piegava.
Mai nessuno seppe, neppure mia madre: il dolore è privato, se
condiviso infiacchisce.
Portavo la guerra nel petto: quel dolore privato, nel cuore del mio
cuore, rimase per sempre il mio segreto.
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