Il bibliotecario di Auschwitz – Andrea Frediani

SINTESI DEL LIBRO:
Mi considero un uomo fortunato. Volitivo e determinato anche,
ma senza le occasioni, la volontà di un uomo può ben poco.
E io ne ho vista tanta, di gente cui è stata preclusa ogni
occasione di mettersi alla prova.
Adesso che inizio a scrivere, ogni parola mi sembra inadeguata
agli eventi che ho deciso di raccontare. Ogni frase mi pare puerile,
superficiale; la mia penna si rivela indegna della tragedia di cui ho
fatto parte, del trauma che rivivrò per tutta la vita nella mia memoria,
nel cuore e nell’animo; i rapporti sociali, il lavoro e ogni gesto
quotidiano risentiranno per sempre del confronto con l’esperienza di
guerra subita in cui sono precipitato. Guerra subita, certo, non
guerra al fronte: lì, almeno, ogni uomo ha un’arma con cui può
provare a difendersi. Ma in un campo di sterminio non ci sono armi,
se non l’intelletto e la mancanza di scrupoli, spesso insufficienti
contro la convinzione del tuo nemico che tu non sei nulla, e che può
far scomparire ogni traccia di te con un semplice desiderio… Perché
un uomo non si preoccupa di chi non ritiene alla sua altezza. Né dei
suoi sentimenti, né della sua storia. Non pensa neppure che li abbia,
sentimenti e storia; altrimenti, forse, non avrebbe l’animo di spazzare
via un essere umano con la stessa noncuranza con cui si calpesta
un nido di formiche.
Eppure sento il bisogno di scrivere, di raccontare. Sarei un
docente universitario di storia, se il mondo non fosse deflagrato, ma
ho sempre desiderato essere anche uno scrittore. Tuttavia nulla, nei
miei studi e nella mia vita, mi era sembrato tanto dirompente da
meritare l’attenzione di un lettore per più di poche pagine.
Ora, se anche la mia penna non saprà restituire con la
necessaria efficacia la vividezza di un terrore che va oltre la guerra,
oltre una strage di civili, oltre ciò che la mente umana può concepire,
ci sarà sempre la cronaca: da esordiente quale sono, posso contare
almeno sulla forza che i fatti stessi sono in grado di sprigionare, e mi
auguro che il lettore sia indotto a riflettere, anche se il racconto non
dovesse essere all’altezza degli eventi narrati, o se la mia sensibilità
non sarà sufficiente a cogliere la portata delle emozioni scatenate
dall’inferno in cui sono precipitato.
Perché è questo che voglio raccontare. L’inferno reale. Non
quello immaginario, creato dall’Alighieri, dalla Chiesa cristiana,
talvolta edificante, perfino epico, addirittura rassicurante, per quella
sua tendenza a stabilire un fato preordinato in relazione al peccato
commesso. No, l’inferno nel quale sono finito io, insieme a milioni di
altri, non ha alcuna relazione di causa ed effetto. Alla pena non
corrisponde necessariamente un reato. Non c’è giustezza, non c’è
giustizia, c’è solo il caso. Puoi finirci a soffrire e morire solo perché
sei nato o sei finito dalla parte sbagliata dell’universo.
Ho voluto vivere. Ho combattuto per vivere, e per qualcuno
potrebbe essere una colpa. Perché la vita di uno solo di noi
dovrebbe essere così importante da giustificare qualunque atto per
rimanervi aggrappati? Per un perverso paradosso, macchiarsi di
colpe che, nella Chiesa cristiana, ci spedirebbero nell’inferno
dantesco è l’unico sistema, spesso, per sopravvivere all’inferno in
terra. Proprio quando la morte è più scontata della stessa esistenza
alcuni di noi si accorgono di quanto preziosa sia la vita. E sono
disposti a tutto pur di preservarla: anche a diventare come i loro
aguzzini. Come possano convivere poi col ricordo di ciò che hanno
fatto, non lo so immaginare. Il fato mi ha risparmiato la tentazione di
trasformarmi per poter vivere. La mia volontà mi ha permesso di
dare un senso alla mia permanenza all’inferno.
E il mio intelletto mi ha offerto la possibilità di svolgere una
missione.
Quella mattina mi svegliai consapevole che non sarebbe stato un
giorno come gli altri. Durante la notte avevo preso una decisione
che, comunque fosse andata, era destinata a cambiare la mia vita.
D’altra parte, da quando i nazisti avevano occupato l’Ungheria,
nessun giorno era mai stato banale. O forse non lo era stato da
quando il governo, ingolosito dalla possibilità di sfruttare la
dirompente espansione tedesca, aveva deciso di affiancare l’Asse
per strappare qualche territorio ai Paesi vicini.
Mai sciacallo aveva pagato un prezzo più alto. C’erano oltre
800.000 ebrei in Ungheria, e ben presto ci si era accorti che, tra le
prede puntate dai nazisti, noi, proprio noi che ci eravamo schierati al
loro fianco, eravamo quella più ghiotta: una riserva aurea di morte su
cui Hitler e i suoi sodali non vedevano l’ora di mettere le mani. E fin
dal primo momento, avevano pressato il reggente Horthy perché
imponesse alla comunità ebraica le stesse restrizioni previste nel
loro Paese e in quelli conquistati. Non che ve ne fosse bisogno: già
prima della guerra in Ungheria gli ebrei erano stati penalizzati da una
legislazione antisemita, e l’ammiraglio non aveva fatto altro che
proseguire in quella direzione.
Ma poi la pressione aveva raggiunto un altro livello. La guerra
non stava andando, per i nazisti, come i primi successi avevano
lasciato sperare, e col tempo il bisogno di manodopera si era fatto
sempre più stringente. Servivano lavoratori coatti nell’Europa
nazista, e per i tedeschi, con il loro sistema diviso tra padroni, servi e
parassiti, nessuno più dell’ebreo meritava di rivestire il ruolo di
schiavo.
Il fatto è che a dispetto delle dichiarazioni ufficiali, per loro gli
ebrei erano parassiti, non servi.
E i parassiti si eliminano, non si schiavizzano.
Non ero in forma, quella mattina. Mi alzai dopo essermi rigirato a
lungo nel letto. Era stata una notte insonne, credo, ma non lo ricordo
con chiarezza: di notti insonni ne ho passate un’infinità, dopo di
allora, e in condizioni ben peggiori. Di certo, avrò soppesato tutte le
opzioni, prima di compiere il passo che mi accingevo a fare. Tuttavia
faticai ad abbandonare le lenzuola che, seppur inzuppate del mio
sudore, mi avvolgevano in un morbido abbraccio protettivo, una
sorta di grembo materno; forse presagivo che le avrei rimpiante a
lungo.
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