Gli spaghetti alla bolognese non esistono – Filippo Venturi

SINTESI DEL LIBRO:
Lei arriva a metà serata. È sola ed è carina. Sono due elementi che solitamente,
soprattutto se abbinati, a Emilio Zucchini non sfuggono. E infatti eccolo lì, già
tutto ringalluzzito, che la osserva mentre si guarda intorno sulla porta. Avrà
sette-otto anni meno di lui, sui trentacinque portati bene. In ogni caso: età
perfetta. La saluta quasi emozionato, con garbo, come del resto fa con tutti. La
fa sedere con discrezione, senza lasciare trapelare nulla del suo subbuglio
interno. Poi, però, non le stacca gli occhi di dosso. Quella ragazza ha qualcosa
di banalmente irresistibile. Dettagli. Piccoli particolari che le donano un’aria un
po’ naïf e un po’ vintage: il taglio alla francese, i capelli lisci e lucidi, il trench
azzurro finto démodé sui leggings aderenti, quel sedere pazzesco.
«Al 4 vado io» sussurra all’orecchio di Alice, la sua cameriera storica. È una
precisazione superflua. Lei conosce bene il suo capo, e soprattutto conosce i
suoi gusti. Emilio è uno da due risate e nessuna implicazione sentimentale. E
quella cliente è la persona ideale per lui, non ci sono dubbi.
Ordina. Emilio la scruta con la penna in mano. È bella e imperfetta, col naso
pronunciato e un modo di fare originale, forse anche strambo, di sicuro
affascinante. Parla, sorride e muove le mani in maniera seducente. Ha anche la
esse bolognese. Strano che non l’abbia vista in giro prima d’ora.
Un’insalata mista per iniziare, a seguire una tagliatella al ragù e dopo, se avrà
ancora fame, un dolce. Ovviamente tutto bagnato da un buon calice di
Sangiovese. Non avrebbe potuto scegliere di meglio. Sano e tradizionale. Un
connubio di equilibrio ed essenza. Zucca non c’è già più con la testa. Ma
probabilmente le cose non sarebbero cambiate, anche se gli avesse chiesto del
brodo col limone. Le porta il cestino del pane, le versa il vino e le ammicca,
ricambiato. Poi se ne va, carico di speranze. Tempo al tempo. E poi la Vecchia
Bologna è pienissima e in questo momento c’è da fare, mica può perdersi in
chiacchiere, seppur piacevoli.
Al tavolo 5 c’è la famosa food blogger che da giorni gli scrive mail, asserendo
di essere la celeberrima Silvia Tal dei tali, di avere un numero di follower pari o
superiore a quelli di papa Bergoglio e, soprattutto, di tenerci a fare bella figura
con gli ospiti che ha invitato a cena alla Vecchia Bologna. È arrivata ed è
esattamente come se l’aspettava: più griffata della Ferragni, cotonata, petalosa
a chilometri zero. E così i suoi ospiti. Forse credeva di imbattersi in uno di quei
ristoranti in cui c’è un cameriere per tavolo, con la carta delle acque e tutto il
resto, mica in una trattoria casereccia, per quanto curata. Gli ha domandato di
continuo se avessero dei prodotti bio. Bio di qua, bio di là, bio di su e di giù, e a
un certo punto non se ne può più. Tanto Emilio ci è abituato: oggi, la necessità di
avere prodotti bio è così diffusa che la gente te li chiede anche se non sa cosa
siano, quasi come fossero divinità. Presto si aspetta di leggerlo anche sul pilone
di qualche cavalcavia della tangenziale: “bio c’è”.
Al tavolo 8 invece ci sono sei “ragazze”, quelle vere, le originali. Le “ragazze”
sono le sue preferite: sono quelle signore di una certa età che si chiamano
ancora così quando si ritrovano tra loro. Le “ragazze” sono speciali: tranquille,
allegre, profumano di armadio al mughetto. E, anche se hanno passato una vita
tra i fornelli e cucinano meglio di qualsiasi chef o pseudo tale che circola oggi in
televisione, sono sempre prodighe di complimenti. Emilio ne conosce il motivo:
loro sanno quant’è difficile fare da mangiare. Per questo apprezzano. E quando
sono al ristorante se la godono, anche solo per il fatto di essere servite, loro che
da sempre servono in tavola tutti, mariti scorbutici, figli distratti e generi
antipatici. Se ne stanno lì sedute, quasi incredule.
Al tavolo 1 c’è un tipo cupo in un angolo, grosso quanto una cassapanca
dimenticata in cantina; all’11 c’è una famiglia e poi, come di consueto, ci sono un
sacco di turisti. Ed è una grande fortuna. Spesso l’aggettivo “turistico”, affiancato
a “ristorante”, viene usato con tono spregiativo. È sinonimo di dozzinale,
posticcio. Ma non è esattamente così, anzi. E Zucca lo sa bene. Quando ha a
che fare con i turisti cerca di fare del suo meglio, e anche di più. Perché quella
del ristoratore è una sorta di missione: rispettare le tradizioni, farle conoscere,
permettere di amare la città anche attraverso i suoi piatti. Non tradire. Con i
turisti, ancor più che con i clienti del posto, questi sono comandamenti. Anche
se poi le cose non vanno sempre come vorrebbe. Certi stranieri, per esempio,
sono insopportabili… Visitano un posto nuovo, con i suoi usi e costumi, e si
incaponiscono nel voler seguire le loro abitudini, i loro orari, i loro modi di
approcciarsi al cibo, che non sempre rispettano la tradizione locale in maniera
ortodossa: vedono un tavolo libero e si siedono senza chiedere, senza
nemmeno salutare, rovesciano ciotole di insalata nelle lasagne, pasteggiano a
limoncello, e come digestivo bevono ettolitri di cappuccino. A volte a Zucca
verrebbe voglia di cambiar mestiere. Stasera, perlomeno, nessuno gli ha chiesto
perché sul menu non ci siano gli spaghetti alla bolognese. Gli hanno risparmiato
la canonica, scontata, inevitabile risposta: “Gli spaghetti alla bolognese non
esistono, sono un’invenzione internazionale, un complotto. Forse c’entrano i
servizi segreti, forse la Cia… Prenda le tagliatelle al ragù e capirà cosa intendo”.
Insomma, è una serata in cui non si sta con le mani in mano e tutto procede
per il verso giusto. Zucchini deve solo attendere il momento giusto per l’affondo
alla ragazza con il caschetto. Tanto più che un minuto prima lei, alzandosi per
andare in bagno, gli ha buttato lì un sorrisetto malizioso. Zucca lo ha
acchiappato al volo, e ora si sente carico come un rotolo di pan di Spagna
all’alchermes e Nutella.
E invece, ecco il patatrac. Quella era solo la quiete prima della tempesta,
l’anticamera del peggio, la sala d’attesa che porta dritto all’inferno. Il suo.
Emilio torna di corsa in cucina, ci sono dei piatti da fare uscire. Sta pulendo il
bordo di una scodella di gramigna da qualche piccolo schizzo di sugo quando
sente un rumore. È un suono sordo e potente, un unico colpo, simile a quello di
un motore che grippa. In simultanea, il brusio di sottofondo prodotto dalla cappa
di aspirazione cessa, sgonfiato come un palloncino che vola via. Zucca guarda il
quadro elettrico e si rende conto che la spia dell’emissione è spenta. Non ci
vuole un tecnico specializzato per capire che è saltata la cinghia dell’aspiratore.
Merda. E adesso come lo finiscono il servizio?
Proprio in quel momento, a Matteo, il suo giovane cuoco di belle speranze,
parte un fragoroso «Vaffanculo!». Esce fumo dal forno. Per forza: si era
dimenticato dentro la torta di riso. Tutto bruciato. La cappa è morta e hanno la
nebbia in Valpadana. Sembra di stare in una discarica. Poi è il turno di Sulwant,
il fido lavapiatti bangladese, che emette un gemito. Gli è scivolato dalla mano
“Occhio che taglia”, il coltello per la carne, che è talmente affilato da essersi
meritato il nome di un capo indiano apache. Gli è caduto su un piede e gliel’ha
aperto in due, perforando pure la scarpa antinfortunistica.
Solo a quel punto Emilio capisce. Sta per accadere qualcosa. Qualcosa di
nefasto. Sono troppe le coincidenze. La sua cucina, ormai lo sa da tempo,
detiene poteri al limite dell’esoterico. Tutte le volte che si sta per materializzare
un guaio, lei lo avverte e gli manda dei segnali. È una specie di anteprima di
quello che succederà, come se qualcuno gli passasse davanti col carrello delle
sfighe.
Il giorno che sparì Giulia, la figlia del suo migliore amico, non gli veniva la
sfoglia per le lasagne. Lo scorso mese, poco prima che entrasse il controllo
dell’Ausl, ha ceduto un tassello nel muro ed è caduta la mensola degli amari. Un
disastro: vetri dappertutto, liquori appiccicosi che colavano ovunque, puzza di
alcol, mentre quelli aprivano i frigoriferi e senza sconti compilavano il loro
verbale.
Zucca è rassegnato, immobile dietro al banco. Puntualmente sente delle urla.
Arrivano dalla toilette delle donne. «Aiuto! Aiutatemi, vi prego!»
Molla tutto e corre. Apre la porta di scatto. C’è una persona a terra. È lei,
proprio la sua potenziale fiamma. A questo punto molto lontanamente
potenziale.
Si rotola, tenendosi le mani alla gola. «Non respiro bene…» ansima come un
fagotto.
“Le è andato qualcosa di traverso” pensa subito Emilio. E invece no.
«Sono allergica, chiamate un’ambulanza…» sospira lei con un filo di voce.
«Frutta secca, frutta secca!» aggiunge. Poi perde i sensi.
Zucca sbianca. Chiama aiuto. Arrivano due clienti. La sollevano di peso. La
riportano in sala. La fanno sdraiare, le tengono le gambe all’insù. Zucca è in
apnea. «Un dottore! C’è un dottore in sala?» esclama concitato. Nei film c’è
sempre. Lì no. Si gira verso Alice, che sta già chiamando il 118. Le “ragazze”
intanto si prodigano per rianimarla. Ognuna di loro vuole dire la sua, hanno tutte
un rimedio infallibile, di quelli di una volta, ma nessuno è efficace.
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