Gli ultimi giorni di Marco Pantani – Philippe Brunel

SINTESI DEL LIBRO:
Negli ultimi mesi anche i suoi cari ne avevano perso le tracce. Marco
Pantani era diventato inaccessibile.
Conduceva un’esistenza dissoluta, a doppio fondo, tra l’abbandono
senza appello di Cristina Jonsson, la fidanzata danese da cui si era
separato, e il rigetto compatto del suo ambiente professionale che lo
aveva beatificato, poi ripudiato senza preavviso al Giro d’Italia sulla
base di un esame del sangue non in regola. 5 giugno 1999, a
Madonna di Campiglio. Questa data era la testimonianza di una
rottura nella sua carriera e nella sua vita di uomo, strettamente
intrecciate, che lui non apparteneva giŕ piů a questo mondo quando
l’hanno ritrovato morto, immerso nel suo stesso sangue, il 14
febbraio 2004, in una stanza del Residence Le Rose di Rimini.
Ucciso da una overdose di cocaina e di depressione e da quella
sensazione di vergogna e ignominia di cui non si era mai liberato.
Aveva trentaquattro anni. Nell’ondata di commenti piů o meno
superficiali generata da questo dramma, non furono in molti a
difenderlo. Quelli che erano stati solleciti a lodare la sua grandezza
quando rappresentava una vera forza economica non ritennero utile
assistere alle sue esequie, che si trattasse dell’organizzatore del
Giro d’Italia Carmine Castellano, bloccato in autostrada da un
ingorgo provvidenziale, oppure di Hein Verbruggen, presidente
dell’UCI (Unione ciclistica internazionale), che trascurerŕ di
giustificare la propria assenza, ritenendo che essa stessa parlasse
per lui. Quanto al patron del Tour de France, Jean-Marie Leblanc,
che lo aveva ringraziato nel 1998 per aver “salvato”
il Tour, un Tour disastrato, moribondo, macchiato dal caso Festina
dato in pasto alle belve, si era fatto rappresentare. Questa morte non
lo riguardava piů. Rimetteva in gioco troppi tabů, troppe cose
inconfessabili.
Il giorno prima, il ministro italiano delle Comunicazioni, Maurizio
Gasparri, aveva moralizzato i funerali dichiarando che il defunto era
tutto tranne che un esempio per i giovani. Non vi furono dunque
condoglianze rattristate, e sulla sua bara nemmeno la piů piccola
corona mortuaria a ricoprire i fiori appassiti delle vecchie vittorie.
Nessun saluto. Nessun omaggio solenne, solo piů tardi qualche
rimorso di coscienza qui e lŕ, attraverso commemorazioni tardive, la
realizzazione di una stele sul Mortirolo, mazzi di fiori, l’attribuzione di
un Premio Pantani sulla cima dell’Alpe d’Huez. Senza dimenticare
quella statua di bronzo con la sue effigie sul lungomare di
Cesenatico, che il presidente della Regione rifiuterŕ di inaugurare.
Le migliaia di seguaci che si erano ammassati lungo il Porto Canale
davanti alla chiesa di San Giacomo, all’ora dei funerali, dovevano
farsi una ragione: non piangevano un eroe tragico inviato dagli dei
del ciclismo per ridestare il mito sopito del “campionissimo” Fausto
Coppi, ma un rinnegato, un proscritto. Declassato dalle sue traversie
giudiziarie, un povero Scarface di paccottiglia, disprezzabile,
ricaduto nella sua follia come il cane di Salomé si gira nel suo
vomito. Mi sono spesso chiesto, scrivendo questo libro, che cosa mi
spingeva a voler riesumare l’uomo dietro il campione. Il desiderio di
riabilitarlo, certamente, di restituirgli la morte poiché gli hanno rubato
la vita, ma anche per la nostalgia del possibile, il bisogno di essere
fedele a ciň che non sarŕ, ma sarebbe potuto essere, una bella
amicizia tra noi, rovinata dalla sua scomparsa. Infine, certo, quella
solitudine che traspariva dal suo sguardo. Lo sguardo di un uomo
braccato, abitato da un cattivo presagio. Quello sguardo mi “parlava”
come “parlava” alle migliaia di tifosi, perché al di lŕ delle controversie
e delle inquietudini che suscitava, lui incarnava le paure e le ferite
che ci opprimono.
Tra il campione adulato, miliardario, sazio di gloria e il morto di
Rimini, che giaceva nei panni di un vagabondo, vi č tutta la
complessitŕ di un’epoca al tempo stesso sublime e crudele che si
esercita senza pudore. Ricordandoci ciň che ci sforziamo di
dimenticare: che la gloria, il successo, esaltati come valori assoluti,
non preservano in alcun modo contro la rovina e la disperazione.
Come spiegare altrimenti tutte queste disfatte, queste vite che
prendono la tangente, a carriere e fortune compiute? L’uscita di
strada di Hugo Koblet nel novembre del 1964, dopo un ultimo
tentativo fallito di rappacificazione con sua moglie. La disgrazia di un
Roger Rivičre che non si č mai veramente ripreso dalla caduta nel
1960 lungo la discesa del Perjuret. Il misterioso suicidio di Luis
Ocana, che dubitava che un’altra vita fosse possibile per lui, dopo il
ciclismo. Come non interrogarsi sull’ibernazione volontaria di Charly
Gaul che visse dieci anni da eremita nel cuore di una fitta foresta del
Lussemburgo, senza acqua, senza elettricitŕ e con la barba incolta,
come a voler rinnegare in modo sintomatico e forsennato l’arcangelo
imberbe su fondo seppia che incarna per sempre davanti alla storia?
La maggior parte dei suoi grandi predecessori, Jacques Anquetil,
Eddy Merckx, Laurent Fignon, Miguel Indurain si sono tutti ritrovati
un giorno o l’altro intrappolati nelle maglie dell’antidoping, senza che
ciň prendesse una piega tragica. Marco si era sentito umiliato,
criminalizzato dal mondo del ciclismo e dai giudici, che finiranno per
assolverlo senza peraltro riparare al male giŕ fatto. Di qui la sua
amarezza, il suo gusto per l’illecito, la sua attrazione per il limite, la
trasgressione. Di qui il suo rapporto ambiguo con la droga che agiva
su di lui come un anestetico. Di qui il suo sdoppiamento ai limiti della
schizofrenia in due Pantani, il personaggio pubblico incensato dai
media, venerato dalle folle, un campione mistico esaltato dall’eco
della sua fama, e il suo rovescio, un essere fragile, smarrito,
provvisorio, lacerato da una realtŕ che non padroneggiava piů. Lŕ
dove Charly Gaul aveva percepito il richiamo della foresta, Pantani si
č gettato nel mondo dilatato della notte, delle discoteche,
dimenticando che un’altra fauna piů temibile era lě ad attenderlo. Č
alla ricerca di quest’uomo, questo scalatore patentato, fuori del
normale, sprovveduto di fronte alle montagne esistenziali della vita,
che mi sono messo in viaggio, diretto ovunque avessi una possibilitŕ,
per quanto minima, di ritrovare le sue tracce.
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