Giardino & orto terapia – Coltivando la terra si coltiva anche la felicità – Pia Pera

SINTESI DEL LIBRO:
Le circostanze esteriori del nostro giardinare sono del tutto irrilevanti.
Come la mente, come il cuore, come lo stato d’animo, il giardino
interiore è altrettanto ubiquo del giardino planetario.
Questa è una bella notizia: non è affatto indispensabile possedere
un giardino. La felicità donata dalle ore a contatto con le piante e la
terra nasce non appena ci viene data l’opportunità di soddisfare il
nostro impulso a prenderci cura, se non del mondo intero – chi mai
potrebbe – almeno di un suo pezzetto.
Cosa ha influito su questa nuova visione? Tanti fattori. Un
passaggio significativo è stato anche quello dalla figura tradizionale
dell’architetto-paesaggista al giardiniere-filosofo. Penso a Gilles
Clément: con la sua consapevolezza che quanto fa un giardiniere
riguarda il mondo intero, incarna la sensibilità del nostro tempo, al
punto che parlare di lui è un po’ come raccontare la nostra stessa
storia. E poi, una cosa è certa: gli dobbiamo una cosa
importantissima, le parole per dirlo.
Credo che la sua visione sia nata da un dolore immenso: vedere
da bambino la spietatezza con cui il padre usava stricnina e fucile
contro minuscole talpe colpevoli di arieggiare a modo loro il pratofeticcio: ovvero il convenzionale, banalissimo prato all’inglese. Con
la violenza generata dalla pretesa di controllare tutto, fino all’ultimo
filo d’erba della più insensata delle monoculture.
Non abbiamo tutti un qualche dolore che ancora ci brucia
dall’infanzia? Un cane maltrattato e non averlo potuto aiutare. Un
albero tagliato senza motivo. Il poeta contadino John Clare,
sconvolto testimone della prima rivoluzione industriale, scoppiava in
lacrime quando vedeva radere al suolo le foreste, recintare le terre di
uso comune, cacciarne uomini e animali. Nella lettera a un amico
confidava che, fossero tutti come lui, il progresso non sarebbe
possibile.
Torniamo al prato all’inglese, idolo in declino da quando la
preferibilità di giardini e pratiche agricole a basso consumo idrico è
evidente, specie dove clima e flora siano di tipo mediterraneo.
Quando Clément era bambino, tuttavia, il prato all’inglese dominava
incontrastato in ville e villette di periferia. Rappresentava la
rispettabilità del ceto medio, ostentava lo sfarzo dei ricchi.
Cosa opporgli? L’esatto contrario: il jardin en mouvement
teorizzato nel 1986, a Parigi, con la trasformazione dell’area della
dismessa Citroën in parco pubblico, una delle pagine più importanti
nella storia dei giardini del Novecento. Una rivoluzione copernicana
fondata sul principio d’incertezza: non più il progetto imposto alla
natura, con le piante ridotte a crauti verdastri sul plastico
dell’architetto, riempitivi dell’ultimo minuto, bensì l’accoglienza
festosa a quanto natura propone. In spazi dove il tosaerba si limita a
tracciare sentieri aggirando le più esuberanti tra le spontanee: tassi
barbassi, angeliche arcangeliche, eraclei mantegazziani. Piante che
un padre/padrone sterminerebbe a raffiche di glifosate, il napalm
delle campagne.
Può passarne di tempo, prima che un nostro oscuro sentire
diventi energia incanalata in visione! Anche per Clément, a quanto
pare, visto che in un suo libro racconta di avere fatto a lungo
giardinaggio «senza la luce delle idee». Amo questa confessione:
l’orto, il giardino sono questo, idea e natura intrecciate.
La luce delle idee. Nuove idee da opporre ad altre ormai
opprimenti: era quello che mancava. Le nuove idee hanno
cominciato a maturare, a tastoni, sotterranee come semi, mentre
Clément, studente alla École de Versailles, accompagnava il
professore di ecologia vegetale Jacques Montaigut nelle esplorazioni
botaniche. C’è stato poi il laboratorio/rifugio di La Vallée, acquistato
nel 1977, cinque ettari di terra e lago nel Limousin dove iniziare a
sperimentare quanto era ancora solo un’intuizione: combinare
l’estetica formale con l’equilibrio di un ecosistema, facendo il più
possibile «con» e il meno possibile «contro». È la fine del giardino
oggetto, dove le piante sono pezzi d’arredamento, da cui cacciare gli
abitanti naturali. A La Vallée, invece: il capriolo Léopold, la nutria
Gaston, la faina Décibelle, Eduarda la biscia, un’infinità di uccelli,
pipistrelli, insetti. Poco a poco, la silenziosa falce prende il posto del
chiassoso tosaerba. E chissà che bengodi, per le talpe!
Paesaggista invitato in ogni continente, sempre più nomade,
Gilles Clément matura poi una seconda intuizione: il giardino
planetario. Una rivoluzione, visto che il concetto stesso di giardino è
intrecciato fin dalla nascita a quello di confine, di spazio sottratto alla
natura, protetto dalle incursioni di animali selvatici e uomini. Come è
cambiato tutto, da quelle lontane origini! Adesso che la natura,
almeno nel suo aspetto amico della nostra specie, rischia di morire,
e l’orizzonte si è allargato ben oltre il mondo, in quel deserto di vita
che è, o pare ancora essere, l’universo, la terra intera comincia a
configurarsi come un unicum cintato dalla fascia spaventosamente
sottile dell’atmosfera, composto di parti tutte interconnesse tra loro.
Dove i semi viaggiano portati da venti e commerci, mentre i veleni
filtrati nelle falde acquifere, i gas tossici mandati a imbrattare il cielo,
contribuiscono a rendere sempre più malato il nostro piccolo globo
rivestito di sola aria. Come l’uomo jainista raffigurato in certe
statuette: nudo, completamente nudo, o meglio: vestito d’aria. Come
le piante, che si nutrono di aria, di luce e di acqua. E le vogliono
pulite. Il giardino del futuro o sarà ecologico, o non sarà.
Ed ecco che Clément comincia a interessarsi ai cosiddetti incolti.
Si accorge che sono lo spazio privilegiato degli scambi di
biodiversità tra una zona climatica e l’altra. In questa prospettiva, la
città si configura come un campo di osservazione naturalistica molto
più avvincente delle campagne, immiserite da un’agricoltura
pesantemente industrializzata. Compito del giardiniere
contemporaneo diventa allora favorire le forme di vita, non
contrastarle o irreggimentarle.
Nel frattempo scrive tanti libri. Le sue idee a un certo punto se ne
vanno per i fatti loro. Cominciano a circolare senza che quasi ci sia
più bisogno di ricordarne l’autore, tanto incarnano lo spirito dei
tempi. Sono un lievito, un enzima, un’ispirazione. Chi non è
soddisfatto di come va il mondo legge La rivoluzione del filo di paglia
di Masanobu Fukuoka, L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono,
La terra è viva di Mario Incisa Della Rocchetta, Wendell Berry e
Vandana Shiva. Leggono anche Clément, che, con le sue parole
nuove potenti come semi, diventa il punto di riferimento di chi cerca
un modo più vivo di fare giardino.
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