Giorni e notti fatti di piccole cose – Tishani Doshi

SINTESI DEL LIBRO:
Tornare non è mai come te l’immagini. Dopo tutti quegli anni persi
in America volevo camminare per le strade e riconoscerle, ma c’è
una tensione nuova in città, un’esuberanza che è difficile da capire.
Madras, agosto 2010. Una marea di corpi. Agli arrivi c’è una ressa
di famiglie e autisti d’hotel, bouquet avvolti nella plastica e cartelli di
benvenuto. È l’una di notte passata. Che razza di genitori sono
questi, per portar fuori così tardi i loro bambini strillanti?
L’aria ti aggredisce all’uscita. Aria pesante, sudata. Odora di
qualcosa che un tempo era dolce ma ora è in putrefazione. Umidità
sotto le ascelle e tra le gambe. Jeans appiccicati alle cosce.
Tassisti e facchini si spintonano per accaparrarsi un passeggero.
Taxi, madam, taxi? I clienti che hanno già pagato trascinano
impassibili le loro valigie verso la Fast Track e l’Akbar Automobili
senza guardare in faccia nessuno. Madrasi di ritorno a casa parlano
al cellulare, dicendo alle persone di affrettarsi a venirli a prendere
all’uscita.
Murali mi aspetta al solito posto. È vecchio e scuro come la notte,
mezzo cieco e con le orecchie pelose. Visto come guida ci
impiegheremo cinque ore anziché tre, ma Mamma ha sempre
apprezzato di più la fedeltà rispetto all’abilità, anche se lei stessa
non era proprio un esempio di costanza.
“Fumi ancora, Murali?”
“Che farci, madam? Ormai son vecchio, no? Difficile cambiare.”
Gli chiederei una sigaretta se questo non significasse sconvolgere
l’ordine delle cose.
Sta cercando di prendermi i bagagli di mano. “Lascia fare a me,
Murali. Guarda che braccia. Vado in palestra, sai?”
Mi fa un sorrisetto e ciondola via ad aprire il bagagliaio dell’auto.
Murali ha una cicatrice che gli corre lungo tutta la schiena come un
fiume placido, grossa e rosa sporco. Lo so perché l’ho visto fare dei
lavoretti per Mamma nell’appartamento, in lungi, la schiena coperta
solo dalla cicatrice e da una savana di folti riccioli neri lungo le
scapole. Un’estate, incoraggiata dal mio primo anno di studi in
America, gli avevo chiesto di quella cicatrice. È stata la guerra, mi
spiegò. Mi disse che il sobborgo tamil dove viveva, alla periferia di
Colombo, era stato attaccato dai loro vicini singalesi, che erano
arrivati con asce, pneumatici, cherosene. Lui era fuggito con un
coltello da macellaio conficcato nella schiena, ma i suoi familiari
erano morti. Ora la sua vita era in India.
Chissà chi ne parlerà per primo, io o lui?
Sono sicura che Murali è uno che sa tener testa a qualunque
silenzio.
Mettiamo le borse nel bagagliaio. Mia madre dev’essere l’unica
persona in India che insiste ad andare in giro ancora con
un’Ambassador. Ma quest’auto ha qualcosa di rassicurante. Mi fa
sentire come se stessi solcando i mari folli delle autostrade del Tamil
Nadu dentro il ventre di una balena.
“Un traffico pazzesco, madam.”
“Già.”
L’aeroporto nuovo è in costruzione da una decina d’anni ma fa
pensare a un interminabile programma-vacanza per famiglie, con
pezzetti che vengono aggiunti all’edificio principale se e quando
arrivano i fondi e la voglia di fare. Le auto lanciano colpi di clacson,
uno più virile dell’altro. La gente si muove con decisione in questa
raffica di rumori, voltandosi a fulminare con lo sguardo i veicoli
insolenti, sempre con la stessa espressione rassegnata sul volto.
Rieccoci in questa merda.
Sono in viaggio da oltre venti ore, ma il mio corpo è
improvvisamente sveglio. È una cosa che mi sorprende ogni volta
che atterro in India. Nonostante il declino lampante, nonostante il
disfacimento, le cose sopravvivono. Non solo: prosperano. Pronte a
sbatterti in faccia la loro vitalità.
Sono nata in questa città, a quattro chilometri dal mare, nei corridoi
umidicci dell’ospedale di St. Isabel. Era il 16 aprile 1977 e, se ci si
può fidare del certificato di nascita, fui tirata fuori dalla pancia di mia
madre esattamente alle 4:12 di mattina. “Tuo padre non c’era,
ovviamente,” mi disse Mamma quando le chiesi com’era stato
partorire. “È arrivato ore dopo con ogni genere di pretesa.”
Il sangue debilitava Papi. Come certi rumori. L’ineleganza nel
vestire era un’altra cosa che non tollerava. Se mio padre avesse
avuto una voce in capitolo nelle faccende del mondo, avrebbe
vietato l’ingresso agli uomini nei reparti maternità.
Mi piacerebbe pensare che i miei genitori siano stati sulle nuvole
per almeno alcuni giorni dopo la mia nascita, ma con il tempo ho
capito che non dev’essere stato così.
“Partorire è doloroso,” disse Mamma. “Ma ovviamente questo lo
sai già. Non così doloroso come quello che tuo padre ha fatto fare al
dottore. Rimettermi le gambe su quelle staffe e raschiarmi le pareti
dell’utero per quella maledetta placenta. Poi tuo padre me ne ha
fatto mangiare un pezzo benedetto perché diceva che mi sarebbe
venuto più latte. Una diceria di non so che casalinga italiana. In quel
momento ho capito che non avevamo speranza. Un uomo che
costringe la moglie al cannibalismo dopo il parto è un mostro.
Questo non l’avrebbe cambiato niente e nessuno, nemmeno tu.”
Eravamo felici nella nostra casetta in Gilchrist Avenue, a Madras,
anche se i miei genitori litigavano spesso. I vicini erano persone miti,
contente di camminare senza fretta fino all’incrocio con Harrington
Road con le loro borse della spesa ad aspettare l’arrivo dei venditori
di verdura e i loro carretti. I fruttivendoli non passavano per la nostra
via sbraitando i loro prodotti, né gli arrotini e gli addetti al recupero
carta. Mio padre era conosciuto come il bianco fuori di testa perché
a volte correva per la strada con una canna di bambù, minacciando
di picchiare la gente.
Papi soffriva di fonofobia. Non so se gli sia venuta da giovane o se
sia esplosa durante gli anni in cui era in India, ma è sempre stato
convinto che la scienza l’avrebbe salvato. Lavorava per un’azienda
italiana chiamata Eni. Tra gli oggetti banditi da casa nostra c’erano
pentole a pressione, tritatutto, aspirapolvere, asciugacapelli, radio e
qualunque giocattolo facesse rumore. La sua unica concessione era
la musica. Dopo cena facevamo un po’ di spazio e guardavo mio
padre e mia madre ballare Paolo Conte sulla terrazza di casa nostra,
pensando che l’avrebbero fatto per sempre.
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