Gettami ai lupi – Patrick McGuinness

SINTESI DEL LIBRO:
Vicino alla scuola c’è un ponte. Per raggiungere i campi sportivi
sull’altra sponda dell’estuario, i ragazzi devono attraversarlo. Lo
fanno tre volte a settimana, pioggia o sole. E di pioggia ne deve
cadere parecchia perché venga cancellata una partita – fosse anche
la più insulsa partita di recupero. «Forza, cazzo, è l’ora del corpore
sano» dice il professor McCloud, il nostro responsabile, fumatore
incallito che esala whisky, parla ai ragazzi come fossero amici del
pub e discute dei personaggi storici come se li avesse conosciuti di
persona. Ti racconta di cosa sa il loro alito, che cos’hanno tra i denti;
come camminano, se hanno le unghie sporche. Ai ragazzi piace,
anche se è stizzoso e imprevedibile e quando si arrabbia sembra
quasi che voglia mordere come una bestia feroce. È grosso, a forma
di botte, quando si china ad allacciarsi le scarpe o a raccogliere un
gesso o una sigaretta caduta sbuffa come una vecchia fisarmonica.
Dimentica tutto, confonde i nomi, arriva tardi e se ne va presto, ma
secondo i ragazzi fa delle belle battute. Per dire che fa battute
sporche. Alcuni dei più grandi vanno a casa sua la sera a fumare e a
bere e a guardare film. Quando tornano puzzano di adulto.
Hanno tutti qualche motivo per andare al ponte: la maggior parte
ci va per fumare sigarette e bere vodka o gin comprati al negozio
vicino; più in là per incontrare le ragazze o anche solo per la vista.
Uno, ora imprenditore di successo, raccoglie pagine di riviste porno
dalla zona del ponte e dagli anfratti e dai dirupi vicini alle scogliere,
gettati via dalle macchine che passano o da chi si masturba tra le
fratte. A meno che abbia una fortuna sfacciata, di solito sono umide
e impregnate di rugiada, così le riporta e le mette ad asciugare sul
termosifone della scuola per rivenderle. Esiste un listino prezzi: le
pagine intere sono care, ci sono sconti per i frammenti sbrindellati o
strappati. Si possono anche affittare.
Siamo poco lontani dal porto da dove partono le navi, con le loro
sirene da nebbia quando il vento soffia nella direzione giusta, che
trasportano tonnellate di container attraverso la Manica. È una
contea acquosa, venata di affluenti, frangiata di insenature ed
estuari, con una costa gessosa tormentata dalle onde e fiumi che si
svuotano in mare. È una contea di ponti, moli e viadotti, dove è
difficile andare da qualche parte senza dover fare i conti con la
presenza dell’acqua. A volte, quando c’è la piena, si ha l’impressione
che i ponti pettinino il fiume anziché attraversarlo. McCloud li aveva
portati una volta a vedere i viadotti sul Medway, dove tre cavalcavia
autostradali e ferroviari attraversano il fiume e dove presto
costruiranno un tunnel per la Francia che renderà i traghetti obsoleti.
Il ponte unisce le due metà della città – un lato elegante,
residenziale e aristocratico, l’altro una distesa di palazzoni, aree
industriali e modesti centri commerciali. Ci sono bed & breakfast per
chi arriva troppo tardi per la traversata e pub per chi arriva troppo
presto. «Due città separate da un ponte» scherza McCloud ogni
volta che attraversano: «Preso il passaporto, ragazzi? Fatto i
vaccini? Adesso andiamo nel continente nero…»
È difficile resistere alla tentazione di guardare giù, verso la
fanghiglia marrone dell’estuario, il luccichio d’ostrica della sabbia e il
limo, il piccolo canale di scolo con il suo rivoletto d’acqua, sottile
come la pioggia che scorre lungo le gronde. Al sole la melma si
tende e s’increspa. Non ha bisogno di molta luce per sembrare viva.
E attraente – luccica come un cuscino di seta marrone. Verrebbe
voglia di saltare.
Il ragazzino è affascinato dall’odore che sale diffondendosi
nell’aria. È l’odore degli estuari: da un lato, spurgo; dall’altro, il mare
aperto. Dovrebbero scontrarsi, ma qui sembra che si combinino
bene, come l’agrodolce dei piatti: uno è ostruzione, marciume e
stasi, l’altro è fuga, libertà e corrente. Recita il rosario dei nomi dei
porti – Zeebrugge, Ostenda, Calais, Cherbourg, Dieppe,
Rotterdam…
E puoi sempre saltare. Puoi saltare quando vuoi. Di base è la
curiosità più che la sofferenza a farti guardare in basso scoprendoti
a desiderarlo, a mandare la mente all’ingiù immaginando come sia
cadere; cadere e cadere e cadere. Il ragazzino si sente ipnotizzato
da quella vista, dalla sua pienezza. Poche cose danno una
sensazione così totale come quello che vede quando guarda in
basso. Non è morire in sé a essere attraente; non è nemmeno
lontanamente infelice a sufficienza per una cosa del genere, anche
se gli piace fantasticare su quanta infelicità gli ci vorrebbe: che tipo
di dosaggio, l’infelicità che risale le tacche della siringa della
desolazione millilitro dopo millilitro, grado dopo grado sul termometro
dell’afflizione… No, non è tanto la morte, quanto la sua natura
ipotetica. È l’idea di vederti dopo ad attrarti, tu che ti sollevi, che ti
stacchi dal corpo come il pennino che si alza dalle lettere che lascia
sul foglio, poi guardi il guscio mentre lo abbandoni, le persone in
lontananza. Anche se in realtà sei tu in lontananza; tu sei la
lontananza; morto, questo sei diventato.
Immagina la morte come una di quelle riprese aeree in un film di
guerra che vedono a scuola, in cui alcuni soldati vengono
abbandonati a terra mentre l’elicottero prende il volo, e loro corrono
ma non riescono a raggiungerlo e gridano e strillano e tendono le
mani verso i loro compagni e le dita si sfiorano e si afferrano e si
tengono ma poi si staccano; e l’elicottero si alza, prima traballante,
poi si stabilizza e si allontana, rigido e riluttante, e i soldati
rimpiccioliscono e il nemico li raggiunge o li abbatte e tutti diventano
un puntino e poi scompaiono; poi è tutto giungla, e poi è tutto solo
cielo.
E, be’, c’è anche il vantaggio di non avere più da trascinarti dietro
questa bestia di corpo, non essere più incatenato all’animale in
fiamme che sei.
La leggenda narra di una donna vittoriana che saltò dal ponte e
sopravvisse, tanto da poterlo raccontare, grazie al suo ampio abito
che si gonfiò trasformandosi in un paracadute di crinolina. Era stata
abbandonata, era perdutamente innamorata. Ma se esiste l’opposto
del suicidio, è quello che accadde a lei: sopravvisse, conobbe un
altro, si sposò, ebbe tre figli e visse fino a tardissima età.
Le possibilità che oggi qualcuno sopravviva alla caduta sono
infime, il ragazzo lo sa, dal momento che: 1) la velocità con cui
arriveresti all’impatto con l’acqua ti ucciderebbe sul colpo; 2) ti
esploderebbe il cuore ben prima per la paura, come i ghiri che
scoppiano dentro quando li prendi in mano; oppure 3) precipiteresti
così a fondo nella melma da soffocare. È l’immagine della donna che
il ragazzo ha in mente quando lui e i suoi amici sbirciano giù e
lasciano cadere oltre il bordo palline di carta, involti di dolciumi,
fazzoletti o monete e cercano di misurare quanto tempo impiegano a
cadere.
Per i primi metri, l’acqua è ospitale. Si apre e ti lascia entrare.
Dopo una ventina è come pietra. Ti spezza come se avessi colpito
un pavimento di piastrelle.
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