Da uomo a padre – Il percorso emotivo della paternità – Alberto Pellai

SINTESI DEL LIBRO:
Sono in camera da solo. Mi trovo dall’altra parte del mondo. Alla tv
stanno trasmettendo un video musicale. La voce di Luther Vandross
canta Dance With My Father, ascolto le parole del brano e, senza
volerlo, mi ritrovo in lacrime. Sto piangendo e, credetemi, è una cosa
che mi accade di rado. Provo una nostalgia terribile. Un bisogno forte
e intenso di qualcosa che avrebbe potuto essere, ma non c’è mai stato
nella mia vita. Le parole di questa canzone mi stanno facendo
immaginare come avrebbe potuto essere il mio papà con me. Un papà
capace di prendermi in braccio e di farmi ballare. Magari insieme a
mamma. Stretti tutti e tre in una sorta di «cerchio magico».
Io questa esperienza l’ho vissuta nella mia vita. Non da figlio, ma
da padre. Più volte mi sono trovato a tenere in braccio uno dei miei
quattro figli e a ballare con lui/lei, mentre una musica ci
accompagnava in sottofondo. Ci è capitato anche di ballare in tre: io,
Barbara (la mia compagna di vita) e uno dei nostri figli. Proprio come
racconta Vandross nella sua canzone. Ho chiaro in mente quanta
felicità procuri nella vita di una persona saper vivere con così tanta
intimità e coinvolgimento emotivo le relazioni con le persone che ti
sono più care e vicine.
Invece quella felicità non l’ho potuta sperimentare quando ero
figlio. E non perché, come è successo a Luther Vandross, mio padre è
scomparso dalla mia vita quando ero bambino. Mentre sto scrivendo
le prime pagine di questo libro, mio padre è vivo e, pur con tutti i suoi
acciacchi, relativamente in forma. Vive leggendo notizie e libri. Invece,
le emozioni per lui sono cose di poca importanza. Credo che se ne
difenda: inconsapevolmente, ma con una potenza incredibile. E se le
emozioni le metti da parte, la vita diventa azione, ma quasi mai si
trasforma in relazione. Proprio quel genere di relazione la cui bellezza
è cantata nel testo di Dance With My Father: una danza che io non ho
mai conosciuto.
Osservando mio padre, ora che sono adulto, mi sono spesso chiesto
perché mai lui – e con lui una enorme quantità di uomini divenuti
padri – non ha voluto vivere momenti così con me quando ero
bambino. E perché il bambino che c’è in me, nel momento in cui
ascoltavo per la prima volta la canzone di Vandross e guardavo quel
video musicale, si risvegliava a tal punto da farmi piangere,
inondandomi di una tristezza infinita.
Ancora non lo sapevo, ma quel pomeriggio in cui – solo in un
albergo di Atlanta – ascoltavo Luther Vandross, cominciava un
dialogo con me stesso e un bisogno di approfondire le questioni che
affronto in questo libro. Che forse ha cominciato, dentro di me, a
essere scritto proprio quel giorno e ha avuto la sua origine da
un’emozione bella e dolorosa al tempo stesso: un’emozione per me
difficile da decifrare.
Un mondo di «non ricordi»
Quella canzone aveva appena aperto dentro di me il mondo dei «non
ricordi». Purtroppo io non ho ricordi in cui col mio papà sperimento
situazioni e mi trovo coinvolto in interazioni che mi procurano quel
senso di calore e tenerezza che le parole del brano mi hanno fatto
intuire. E non ho nemmeno molti ricordi di giochi condivisi, di risate
esplose a scena aperta. Se ripenso a come sono andate le cose tra di
noi, rivedo numerose scene in cui lui mi interroga, mi fa domande,
sempre riguardanti le materie scolastiche. Quando è nato il tal dei tali?
Quando è morto quell’altro? Quando è avvenuto questo evento
storico? Quando quell’altro? Dati, informazioni, cognizioni: ma
pochissime emozioni. Cose che si trovano scritte nei libri, ma che non
sono scritte invece negli eventi della vita.
E se proprio lo devo dire, le emozioni, quando comparivano sulla
scena della nostra relazione, non erano propriamente dei raggi di sole.
Non c’era luce e calore tra di noi. Piuttosto timore, ansia, fatica, senso
di inadeguatezza. Ora è più o meno la stessa cosa.
Perché il calore dentro alla relazione con un padre lo impari da
piccolo. E se quell’apprendimento manca, recuperarlo poi da adulti,
seppur possibile, è una scalata che sembra l’Everest. Questo l’ho
imparato sulla mia pelle. Ma anche parlando con moltissimi uomini,
con cui mi sono trovato coinvolto per motivi di vita e di lavoro.
Mio padre non rideva
Era cattivo mio padre? No, non lo era. È cattivo mio padre, oggi?
Assolutamente no. Ma di certo non è un uomo gioioso. Era ed è
sempre molto serio. C’è una poesia di Saverio Vollaro, Mio padre
rideva, che ben descrive l’esperienza che ho fatto della seriosità di mio
padre:
Quando mio padre rideva
Neppure lui sapeva
Proprio perché rideva
Era un riso alternativo
Forse egli rideva davvero
Solo quando io non c’ero
Quando io c’ero pareva
Come se fosse proibito
Rideva che sembrava cucito.
2
In effetti mio padre è sempre stato molto serio perché ha dedicato
la sua vita al suo lavoro. Che era molto serio: faceva il medico. E ha
vissuto con una dedizione totale la sua professione. Come, credo,
abbiano fatto gran parte degli uomini della sua generazione.
Essere suo figlio mi ha fatto imparare l’etica del dovere e posso dire
di avere collezionato da lui infiniti esempi e racconti, in questo senso.
Il dovere è sempre venuto prima di tutto. Sempre e comunque. Il mio
patto di figliolanza con lui è stato implicitamente costruito sul mio
profilo di studente, più che sulle mie esigenze di figlio. Essere un
buon figlio a casa nostra significava prima di tutto andare bene a
scuola. Il resto aveva un peso relativo. Molto relativo.
In effetti, ho imparato presto l’obbedienza. E a pretendere poco da
lui. Ho percepito che la cosa migliore era abbassare il livello delle
richieste, adattarsi ai suoi ritmi e ai suoi bisogni, credere che un
bambino deve essere sempre rispettoso di ciò che il padre ritiene
essere giusto. Anche se poi, forse, quella giustizia non è conclamata, è
forse più un’opinione che un dato di fatto.
Mio padre è un uomo nato tra la Prima e la Seconda guerra
mondiale. Un uomo del cui padre, ovvero mio nonno, si sa
pochissimo. Ne conservo anch’io sparuti ricordi, perché è morto
quando io avevo cinque anni. E della sua storia, in casa nostra, si è
parlato pochissimo.
Le generazioni degli uomini di famiglia hanno probabilmente
risposto appieno a quelle che erano le aspettative intorno al ruolo
maschile in quei tempi e in quel periodo storico. Anche la grande
rivoluzione del Sessantotto che ha ridefinito in modo intenso e
profondo i ruoli all’interno della famiglia, a casa nostra ha lasciato
poche tracce. Appartengo a una famiglia numerosa in cui sono arrivati
quattro figli in meno di quattro anni. Io sono l’ultimo nato. A causa di
ciò, mia madre ha lasciato il suo lavoro di farmacista. È avvenuto in
concomitanza con la nascita della prima figlia e da allora si è occupata
costantemente della casa e di noi figli. Probabilmente questo era
l’«accordo» prematrimoniale (esplicito? implicito?) tra loro due e in
effetti le cose sono andate proprio così. Il mio genitore affettivo è stata
la mamma. Quello normativo il papà. Coccole e carezze sono arrivate
da lei. Regole e punizioni da lui. E se qualcosa girava storto, la
strategia per riportare tutto a posto era basata su musi lunghi e
silenzio. Si mangiava tutti zitti a tavola in un’atmosfera pesante.
Ricordo ancora l’ansia che provavo in quelle cene in cui si faticava ad
alzare lo sguardo dal piatto. Non era successo niente di veramente
grave: magari una parola di troppo, un litigio urlato tra fratelli, uno
«sgarro» a qualche comando.
SCARICA IL LIBRO NEI VARI FORMATI :
Commento all'articolo