Dai serpenti di Wuhan alle aragoste di Portofino – Francesco De Filippo

SINTESI DEL LIBRO:
Fino a ieri sconosciuto, oggi il mercato cinese di Wuhan, in
particolare il mercato del pesce, è diventato noto in tutto il mondo: è
da lì che si è diffuso il virus della Sars-CoV-2 anche conosciuto
come Covid-19 o, più comunemente, Coronavirus.
Tutti tristemente sanno cos’è il mercato di Wuhan, non a tutti è
chiaro dove si trova, ancora meno sono le persone che hanno fatto
ricerche in rete per trovare foto, video, testimonianze; pochissimi
infine sono quelli che ci sono stati fisicamente.
Insomma, conosciuto o no, Wuhan nell’immaginario collettivo ha
assunto per antonomasia il concetto di affollato luogo privo di igiene
dove si vendono animali vivi e morti di ogni specie e taglia, selvatici
e no, tenuti in condizioni di terribile crudeltà e dove la prossimità
fisica con gli umani è priva di qualunque cautela igienico-sanitaria.
Una situazione pericolosissima, e che infatti ha generato il terribile
morbo.
È davvero così? Sembra proprio di sì.
A questi elementi concreti se ne associano altri, di natura
emotiva, con forti richiami psicologici.
Il fatto che in Cina si mangino cani e gatti – e che questi animali
vengano tenuti nei mercati addossati gli uni agli altri, vivi, in grandi
gabbie metalliche, spaventati e sporchi, forse storditi da sostanze –
è un fenomeno orrendo. Ne discende un banale pensiero collettivo:
soltanto un popolo crudele può pensare di mangiare quelli che per
noi sono quasi membri di famiglia, vezzeggiati e coccolati quasi
come figli.
È difficile, poi, non considerare barbara l’usanza di mangiare topi
e ratti in genere, anche di grandi dimensioni, per non parlare di
serpenti (di qualunque taglia, anche gli enormi rettili lunghi metri,
purché commestibili) e pipistrelli. Non quelli che vivono in Europa,
ma i pipistrelli orientali, dall’apertura alare grande come gabbiani.
Ha fatto il giro del mondo il video postato su Youtube in cui una
bella ragazza cinese vestita con gusto si siede a tavola e mangia
uno di questi spaventosi esemplari a cui, peraltro, la morte ha
disegnato sul volto un ghigno vagamente demoniaco: bocca
spalancata e denti aguzzi in mostra. Viene servito con le ali
incastrate nel bordo del piatto, colmo di un brodo di colore giallo. Un
elegante appiattamento.
Analogamente, suscita raccapriccio nell’individuo occidentale
anche il video in cui un’altra bella ragazza cinese, a mani nude, si
porta alla bocca un serpente avvoltolato in spire nel piatto. Non
senza una certa grazia, con le dita scosta la pelle dalla carne
avanzando con le mascelle centimetro dopo centimetro fino a
divorarlo, di gusto, tutto.
Circola poi un altro video, la cui visione non consiglio a tutti, che
mostra una piccola catena culinaria al lavoro, in strada, composta da
persone dai tratti orientali, tutte accovacciate nella tradizionale
postura. Non ci sono riferimenti geografici, il video è girato in una
sorta di autorimessa o cortile interno, non asfaltato, le persone sono
in prossimità di un muro di mattoni grezzi, e loro potrebbero essere
coreani, cinesi, laotiani, indonesiani o perfino giapponesi. Di volta in
volta un uomo estrae da una grande e affollata gabbia metallica un
topo vivo e lo porge al compagno vicino che, tenendo l’animale per
la coda lo lancia in una pentola dove bolle acqua su un fornello da
campo. Copre subito la pentola con un coperchio perché il ratto non
fugga. Non ne causa la morte, il suo scopo non è cucinarlo: dopo
pochi istanti infatti, lo estrae, lo immerge in una bacinella con acqua,
gli toglie la pelle a mani nude come se gli sfilasse una calzamaglia
esercitando una certa pressione, e lo passa a un terzo uomo che
rifinisce il lavoro con più cura e servendosi di una seconda bacinella.
C’è poi l’ambiente che ha il suo peso emotivo: cuocere all’aperto
in enormi pentole o bidoni in un’area dove sono assiepati centinaia
di minuscoli esercizi commerciali o bancarelle tra folla, urla, scooter
che vanno e vengono carichi di animali vivi o morti, infonde un senso
di allegra confusione ma anche di precarietà (soprattutto sanitaria).
Qualcuno fa rientrare questo contesto nella ampia gamma dello
street food. Un eufemismo, un vezzeggiativo in questa zona. Qui
non si trova la salda tradizione del fish & chips londinese, con uomini
e donne eleganti che per trasmettere un messaggio di ugualitarismo
e di democrazia mangiano nella City in modo frugale spiluccando
dall’involucro di cartone un pezzo di filetto fritto e una patatina,
incuranti dell’unto che si addensa sulle dita (l’equivalente della
senape dell’hot dog di Manhattan che cola su polsi e polsini).
Lo street food orientale, invece, è ruspante: c’è sangue in alcuni
mercati per le mannaie da macellaio che si abbattono su corpi inermi
pulsanti e terrorizzati o su bestie e bestioline già giustiziate. Qui ci
sono ovunque carcasse, animali ben ordinati sui banconi, rigidi nella
posizione in cui le ha fissati definitivamente la morte.
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