Crimini a Nord-Est – Luana De Francisco

SINTESI DEL LIBRO:
Per sapere dov’è la mafia due magistrati avevano coniato una formula che
racchiude un metodo. Per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino la mafia si
trova «seguendo i soldi» e «cercando dove all’apparenza non succede nulla,
dove [la mafia] si sente sicura».
Un metodo che ha permesso, anni dopo la morte dei due servitori dello
Stato padri della Direzione nazionale antimafia, di catturare quasi tutti i
boss delle cosche corleonesi vincenti e quelle loro alleate. Erano nei loro
paesi, spesso nelle loro proprietà, comunque in zone sotto il loro
controllo assoluto. Sono stati trovati sempre, senza eccezione, nei posti
dove si sentivano al sicuro, appunto.
Capire il livello di comando mafioso a Nord-Est diventa allora possibile
calcolando che il Veneto è la seconda regione italiana dopo la Sicilia per la
presenza riscontrata di boss mafiosi latitanti e di loro familiari subito dopo
la “stagione delle stragi”. Non solo: è la regione dove sono ancora
presenti 150 mafiosi “di livello” che si sono fermati qui dopo aver
scontato il confino, oppure i loro figli o parenti di primo grado.
Una regione ritenuta così sicura che quando i vertici di Cosa nostra
devono sparire, braccati per la prima volta dallo Stato dopo gli attentati di
Capaci (23 maggio 1992), in cui persero la vita il giudice Giovanni
Falcone, la moglie e la sua scorta, e di via d’Amelio (19 luglio 1992), in
cui furono uccisi il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta, molti boss
scelgono di trasferirvisi.
A Longare, in provincia di Vicenza, viene infatti arrestato il 6 settembre
1992 l’uomo che aveva pianificato entrambe le stragi. Giuseppe “Piddu”
Madonia, rappresentante permanente nella cupola, viene fermato mentre
si muove a bordo di una Mercedes con scorta armata e auto apripista. Il
suo ruolo egemone nei due attentati viene riconosciuto nella condanna
definitiva all’ergastolo nel 2006 dalla Corte d’appello di Catania
confermata nel 2008 in Cassazione.
Anche Giuseppe Graviano, cioè l’uomo che materialmente ha azionato
l’autobomba di via d’Amelio, sceglie il Veneto per scomparire subito dopo
le stragi. Assieme al fratello Filippo è il reggente della cosca di Brancaccio,
ha ordinato l’omicidio di don Pino Puglisi, ha portato a termine la strage
contro il giudice Borsellino ed è tra i primi ad aver reinvestito i proventi
della propria attività criminale in Borsa. I due sono talmente importanti
nella gerarchia mafiosa che viene loro affidata dalla “cupola” anche
l’organizzazione delle stragi dinamitarde in via dei Georgofili a Firenze
(in cui nella notte tra il 26 e 27 maggio 1993 vengono uccise 5 persone e
ferite altre 42), e quelle della notte del 27 luglio alle 23 dello stesso anno a
Roma (22 feriti) e a Milano in via Palestro (5 morti e 12 feriti).
Per la loro latitanza scelgono anch’essi il posto più sicuro che hanno a
disposizione: Abano Terme, in provincia di Padova, dove risiedono per
quasi un anno in un appartamento di piazza Mercato 22. Quando gli
agenti vi fanno irruzione loro sono appena scappati. Il sistema di
protezione ha funzionato, quindi, ma hanno dovuto lasciare i vestiti e gli
inseparabili orologi da collezione. Braccati, saranno arrestati un anno
dopo. Stanno scontando vari ergastoli tra il carcere di Opera e quello di
Parma.
Più fortunato Pasquale Messina, descritto dagli inquirenti come il
sicario ufficiale della cosca di Brancaccio: la sua latitanza in Veneto durerà
ben sette anni grazie a una rete di protezione e supporto che le forze
dell’ordine definiranno «massiccia». Sarà arrestato a Bassano del Grappa
nel 1999. Con una nuova identità e alcuni prestanome nel 1996 aveva
acquistato una lavanderia industriale che ha gestito fino all’arresto.
Nel 2012 poi, il figlio del capo dei capi, Giuseppe Salvatore Riina,
“Salvuccio” come lo chiamano a Corleone, ha dovuto lasciare la Sicilia
(dopo 8 anni e 10 mesi di carcere per mafia) per scontare il periodo di
libertà vigilata. Per questo ha scelto Padova. «Una città a caso», come ha
spiegato, in cui ha trovato un bell’appartamento appena fuori dal centro
storico. Rapporto con la città durato nel tempo, almeno fino al 28
novembre 2017, quando è stato allontanato dopo che gli investigatori
avevano scoperto suoi contatti con pregiudicati palermitani che lo
avevano seguito al Nord e spacciatori di cocaina.
Discorso a parte per le famiglie di Gela. I Rinzivillo e i Barbieri hanno
interessi in imprese del Vicentino, come dimostrano l’arresto di Giuseppe
Barbieri a Montecchio nel 2016, e il fermo di Cristoforo Palmieri,
indicato dai carabinieri come «curatore degli interessi economici» della
famiglia Rinzivillo, il 10 febbraio 2018, sempre, guarda caso, a
Montecchio.
Un’altra famiglia gelese, il clan dei Curvà, anche loro imparentati con
Palmieri, ha invece instaurato un “canale preferenziale” a Chioggia, porto
prediletto sin dai tempi di Fidanzati e Maniero per i traffici di armi e
droga, facendovi arrivare quantitativi di stupefacente attraverso i Balcani,
come confermano l’arresto e la successiva condanna in Cassazione
(dicembre 2017) di Angelo Curvà, Salvatore Lopez, Nunzio Ferracane e
Ignazio Missud.
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