Autoritratto di un reporter – Ryszard Kapuscinski

SINTESI DEL LIBRO:
Nato in Polessia, sono sostanzialmente uno sradicato. Partito bambino da
Pinsk, mia città natale, per tutta la guerra sono stato sballottato di qua e di là.
Non facevamo che scappare: prima da Pinsk in direzione dei tedeschi, poi
nella direzione contraria. Ho cominciato a vagabondare a sette anni, e ancora
non ho smesso.
Mi sono spesso sentito chiedere - anche di recente - come mai io non sia
emigrato. Rispondo sempre che sono già un emigrato. La mia casa è altrove,
in un altro stato. Appena mi fermo in un posto, anche fuori della Polonia,
comincio ad annoiarmi, sto male, devo ripartire. Sono molto curioso del
mondo. Per tutta la vita non ho fatto che lamentarmi di non essere ancora
stato in questo o quel posto.
La curiosità del mondo che anima il reporter è una questione di carattere.
Ci sono persone non interessate al resto del mondo: quello in cui vivono è per
loro il mondo intero. Una posizione rispettabile come qualunque altra.
Confucio diceva che il modo migliore per conoscere il mondo è quello di non
uscire mai dalla propria casa, e anche questo è vero: invece di spostarsi
materialmente, si può viaggiare all'interno della propria anima. Il concetto di
viaggio è quanto mai elastico e differenziato.
Ci sono tuttavia alcune persone che, per loro natura, devono conoscere il
mondo in tutta la sua varietà. Non sono numerose.
Esistono vari modi di viaggiare. La maggior parte della gente - le
statistiche parlano addirittura del novantacinque per cento - parte per
riposarsi. Vuole scendere in alberghi di lusso in riva al mare e mangiare bene,
non importa se alle Canarie o alle Figi. I giovani compiono viaggi di tipo
agonistico, come cimentarsi nell'attraversamento dell'Africa da nord a sud, o
navigare sul Danubio in kajak. Non si interessano alla gente incontrata per
strada: il loro scopo è di mettersi alla prova, la soddisfazione di superare le
difficoltà. Certi viaggi nascono per motivi di lavoro o per necessità - anche
gli spostamenti dei piloti di linea e quelli dei profughi sono una particolare
forma di viaggio. Per me il viaggio più prezioso è quello del reportage, il
viaggio etnografico o antropologico intrapreso per conoscere meglio il
mondo, la storia, i cambiamenti avvenuti, in modo da trasmettere agli altri le
conoscenze acquisite. Sono viaggi che richiedono concentrazione e
attenzione, ma che mi permettono di capire il mondo e le leggi che lo
regolano.
Più SI conosce il mondo, più ci rendiamo conto della sua inconoscibilità e
sconfinatezza: non tanto in senso spaziale, ma nel senso di una ricchezza
culturale troppo vasta per poter essere conosciuta. Al tempo in cui James
Frazer scriveva Il Ramo d'oro e molti antropologi del XIX secolo pensavano
che esistesse un numero finito di tribù o di popoli, era ancora possibile
tentare di classificarle o descriverle. Oggi sappiamo che l'immensità e la
ricchezza culturale del mondo sono infinite. Dopo oltre quarantacinque anni
di continui viaggi, e pur conoscendo questa terra meglio di chi non ha
viaggiato, sono convinto di non sapere ancora niente.
La mia principale ambizione è di dimostrare agli europei che la nostra
mentalità è quanto mai eurocentrica e che l'Europa, o meglio una sua parte,
non è il mondo intero. Che l'Europa è circondata da un'immensa e sempre
crescente varietà di culture, società, religioni e civiltà. La vita su un pianeta
coperto da un crescente numero di interconnessioni deve possedere tale
consapevolezza e adattarsi a una situazione globale radicalmente nuova.
Il viaggio a scopo di reportage esclude qualsiasi curiosità turistica, esige
un duro lavoro e una solida preparazione teorica, per esempio la conoscenza
del terreno su cui ci si muove. È un modo di viaggiare senza un momento di
relax, in continua concentrazione e raccoglimento. Dobbiamo essere
consapevoli che il luogo nel quale siamo giunti ci viene concesso una sola
volta nella vita, che probabilmente non ci torneremo mai più e che abbiamo
solo un'ora per conoscerlo. In un'ora dobbiamo registrare l'atmosfera e la
situazione, vedere, ricordare, sentire più cose possibili.
Il viaggio del reporter fuori dall'Europa e dagli Usa è un viaggio duro,
spesso micidiale, poiché nel resto del mondo le comunicazioni sono male
organizzate. Il reporter deve affrontare un'enorme fatica logistica, fisica e
intellettuale. Il viaggio a scopo di reportage sfibra e distrugge. Nel mio ultimo
viaggio in Africa ho perso dieci chili. Nell'ultimo viaggio in Asia, sei. Chi,
venendo a sapere che un reporter è stato in Congo, gli dice: "Ci sono stato
anch'io, anch'io l'ho visitato" parla di una cosa completamente diversa. Sono
modi di vedere e sentire il mondo radicalmente opposti. Per questo il viaggio
a scopo di reportage esige un surplus emotivo e molta passione. Anzi, la
passione è l'unico motivo valido per compierlo. È per questo che così poche
persone praticano il reportage su scala mondiale. In compenso ce ne sono
molte che, dopo un certo tempo, dicono basta, si ritirano e passano ad altro.
Di tutti i reporter che viaggiavano per il mondo negli anni sessanta, ci sono
rimasto solo io. Gli altri sono diventati direttori di reti televisive, di emittenti
radiofoniche, di case editrici e di quotidiani. Sono diventati stanziali. Non si
può farne loro una colpa: è una professione che funziona così. La si potrebbe
paragonare a quella del pilota collaudatore: dura un certo tempo, oltre il quale
bisogna smettere.
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