Bilico – Paola Barbato

SINTESI DEL LIBRO:
Il primo molare era stato tranciato alla base. Il premolare accanto,
invece, nel momento dello
scatto della pinza aveva ceduto, fuoriuscendo dalla gengiva con tutta la
radice, e ora penzolava
verso l'esterno, appoggiato al labbro. Gli incisivi erano stati un gioco da
ragazzi, si erano
allegramente dimezzati riducendosi a patetici monconi che si
affacciavano dalla loro tana di carne.
Giuditta scattò una foto. Sì, va bene, non era sua competenza scattare le
foto, ne avrebbe avute a
dozzine da studiare, ma era sempre stata certa di avere un occhio clinico,
una visione «laterale»
delle cose, la capacità di far emergere i dettagli invece del soggetto
protagonista. Con i guanti in lattice di polietilene, di una misura troppo
grande per le sue mani grassocce da bambina, frugò
bene la bocca dell'uomo sotto la lingua. Le venne spontaneo constatare
ancora una volta come la
densità del sangue rappreso avesse una certa affinità con quel a del
sangue mestruale. «Morte
per infarto miocardico acuto. L'assassino gli ha tenuto aperta la bocca
con un divaricatore, reperto numero. .» controllò la cartelletta «. . sette. Ha
immobilizzato la vittima legandola alla sedia e poi le ha tranciato alla base
tutti i denti sani che le rimanevano in bocca per un totale di.. » ulteriore
controllo alla cartel etta «. . quindici. Quattro incisivi, un canino, due
premolari e due molari
inferiori; due superiori, due incisivi e due canini. Ha avuto la cura di
togliergli i ponti e un piccolo apparecchio prima di cominciare.» Pausa. E va
bene, sottolineiamo l'ovvio. «La vittima è morta
per il dolore. Non gli ha retto il cuore. Non ci sono altre cause
conosciute.» Spense il registratore.
Silenzio religioso, come sempre. Nei telefilm le criminologhe, le
psichiatre criminali americane, le addette del a scientifica sono sempre alte,
belle e con uno sguardo dolente. Gli uomini le
guardano con reverenza e temono di avvicinarsi troppo, quasi la figura
femminile venisse rivestita
di un alone etereo dovuto al contatto con la morte. Lei era bassa, tozza,
né bella né brutta,
copriva un po' tutte le mansioni e con le sue alter ego televisive aveva un
unico punto in comune:
spaventava gli uomini. Non era sempre stato così, ma lo era da qualche
tempo. Probabilmente per
il fatto che non distoglieva lo sguardo. Quale che fosse la carneficina
che le si presentava davanti, che fossero uomini, donne, bambini o pezzi degli
uni o degli altri, Giuditta Licari non distoglieva lo sguardo. Non arricciava il
naso di fronte all'odore di sangue, urina, feci e morte che ammorba
l'aria di ogni luogo del delitto (ed è prassi aprire le finestre solo dopo la
rimozione dei corpi), non provava nemmeno un sussulto di empatia per lo
strazio a cui assisteva, non ricollegava la scena
alla sua causa diretta: urla, dolore, paura. Delirio. Crudeltà. Per lei erano
concetti astratti. C'erano dati da riportare. Una gamba ritrovata dietro una
scrivania? Era un reperto con un rudimentale
disegno in gesso tutt'intorno, un campione di sangue da prelevare, una
prova da preservare con
cellophane e guanti asettici. Nient'altro. Non era «diventata così da»,
come molti colleghi
sostenevano, cercando di dare una dimensione umana alla sua assoluta
estraneità. Era sempre
stata così. Giuditta Licari era sempre stata così.
Si erano spenti come fiammelle senza ossigeno i commenti dei
compagni di scuola, così come i
bisbigli nei corridoi al suo passaggio, da che era ancora bambina. La
prima della classe, il massimo dei voti ottenuto con la disinvoltura di chi
semplicemente impara. Sarebbe stata un bersaglio
facile, con quella pelle grassa, i capelli sempre unti e appiccicati alla
fronte anche in inverno, la corporatura tozza che con la pubertà invece di
«fiorire» si era limitata ad assestarsi in un paio di tette solide e fianchi
compatti. Ma già allora a ogni battutina, a ogni commento o dispetto,
Giuditta rispondeva alzando lo sguardo e sorridendo appena. Come se
fosse stata una spettatrice,
invece che la vittima dello scherzo. Ben presto, più presto di quanto non
ci si potesse aspettare,
l'interesse crudele dei bambini verso chi è diverso, si era attutito,
ovattato. Giuditta aveva preso la licenza media con il massimo dei voti,
presentando una bella tesina sul pittore olandese
Hieronymus Bosch, aveva proseguito diplomandosi con sessanta
sessantesimi al Liceo scientifico,
si era iscritta a medicina, inanellando un esame dietro l'altro, un trenta
dietro l'altro, con o senza lode. A chi le chiedeva come potesse attendere
calma il suo turno per l'esame, senza nemmeno
ripassare, rispondeva con il solito sorriso vacuo che lei sapeva, aveva
studiato, non c'era ragione di avere paura. Aveva aperto la pancia alla prima
rana senza un brivido, senza battere ciglio. Aveva
sezionato il primo cadavere con lo stesso distacco, mentre la sua
compagna di esercitazione dava
di stomaco. Il suo nome era finito su una lista che era passata di mano in
mano e da un certo
momento in poi aveva saputo che la sensazione di essere tenuta d'occhio
non era priva di
fondamento. Si era laureata senza una sbavatura, entro l'anno
accademico, con centodieci e lode
e una tesi intitolata Tossicologia forense nel processo penale. Studio
retrospettivo su una casistica di decessi per avvelenamento indotto da metalli
pesanti, per la quale aveva visitato gli obitori di mezza Italia e aveva ottenuto
anche una riesumazione. Poi la specializzazione in anatomia
patologica. Poi quella in psichiatria. Contemporaneamente l'inizio della
collaborazione con la
polizia, che naturalmente durava già da qualche anno in maniera
riservata e ufficiosa. Di lei si
sapeva tutto quello che c'era da sapere, non c'erano ombre né misteri,
nessun trauma infantile da
indagare, nessuna famiglia disastrata al e spalle, solo due genitori
orgogliosi di origini modeste, il padre con la tendenza ad alzare la voce ma
non le mani, la madre con quella di vedere nella figlia
adorata una bellezza che non c'era, non c'era stata, non ci sarebbe stata
mai. Una vita dedicata
allo studio prima e al lavoro poi, qualche sporadica relazione, un
appartamento e un'auto di
proprietà, quarantuno anni dichiarati. Eppure molti dei suoi colleghi
sarebbero stati pronti a
giurare che Giuditta Licari non avesse mai vissuto, nemmeno un giorno
della sua vita.
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