Apprendista di felicità – Una vita in giardino – Pia Pera

SINTESI DEL LIBRO:
Solo un giardiniere per vocazione capirà: poco equivale al piacere di
scavare una buca. Per nulla al mondo mi riconoscerei affetta da
Schadenfreude, gioia maligna per le disgrazie altrui. Tuttavia non
sempre, quando una pianta secca d’estate, provo sentimenti luttuosi.
C’è pianta e pianta. Per alcune stravedo, con altre il dolore si allevia:
il tronco del salice servirà a fare legna, i rametti fascine. Lo spazio
sgombro, con letizia di consolabile vedova, lo riservo a una pianta
cui devo la prova che i fiori bianchi non sempre profumano più dei
colorati. Nel giardino di Angelo Lippi un cespuglio mi ha lasciata
senza fiato con il suo aspetto di biblico roveto ardente illuminato da
lingue di fuoco di un arancio smagliante: un olivo odoroso. Di questo
colore?, ho chiesto stupefatta, abituata com’ero alla varietà più
comune dai minuscoli fiorellini bianchi, la popolare olea. Questo era
un Osmanthus fragrans ‘Aurantiacus’, originario, credo, di Makino.
Per ospitarlo degnamente al posto del vecchio salice ho preparato
una buca a regola d’arte, di quelle che non potevo permettermi nei
primi tempi, quando l’ingordigia di piante e la fatica di sistemarle
tutte nel giardino nuovo di zecca mi faceva chiudere un occhio su
molte buche scavate di corsa. Salvo ripensare, con la coscienza un
tantino sporca, alle parole di Nelson Mandela quando ricorda di
essere passato con animo indenne attraverso la lunga prigionia per
avere sempre eseguito col massimo scrupolo la pulizia delle latrine,
considerata alla stregua di un esercizio spirituale. È lontana l’epoca
delle trafelate buche autunnali: resta poca terra, i nuovi acquisti si
contano sulle dita. Quest’anno, uno solo. Ho atteso il momento
giusto, qualche giorno dopo le piogge, da trovare in tempera il
terreno argilloso. Gettate da parte le pellicce erbose, ho scavato con
calma, lasciando libero un lato della buca dal terreno ammucchiato,
per non perdere di vista il livello del terreno cui allineare il colletto del
cespuglio. La vanga affondava bene, ho largheggiato: una buca
ancora più ampia e profonda del prescritto, tre volte la zolla. I ciottoli
da drenaggio, del letame secco, un bastone tutore, terreno
sminuzzato tutto intorno alla pianta, ancora letame lontano dalle
radici, poi in piedi a pestare tutto intorno con gli scarponi, infine la
zanella. A lavoro finito, guardo soddisfatta: questa ottima buca
assicurerà al nuovo osmanto quanto i francesi chiamano naissance,
il vantaggio di crescere in una buona dimora.
Quanta vita nel buio!
Dicembre 2006
Nel Cinquecento boschi, foreste e natura certo non mancavano, così
il divertimento del giardiniere era stupire costringendo alberi e
cespugli in verdi sculture e architetture, addomesticando quant’era
altrove indomito. La principessa di Clèves, sublime o forse soltanto
antipatica eroina dell’omonimo romanzo di Madame de La Fayette,
tratta il suo cuore alla stregua di un capolavoro d’arte topiaria: ormai
vedova, rifiuta di sposare l’uomo di straordinario valore cui la
legherebbe la più ardente e ricambiata delle passioni, vanta
l’intransigente virtù per cui non ha mai concesso ai sentimenti
d’influire sulla condotta. Quantomeno in società, perché nel segreto
del diletto giardino di Coulommiers, quando nel cuore della notte
l’ordine impeccabile delle aiuole fiorite in recinti di bosso si smorza e
quasi annega nel più vasto respiro della foresta tutt’intorno, la
principessa si abbandona a una dolcissima rêverie. Ritrovo il
fascino, sommesso e potente a un tempo, di simili libertà assaporate
nel buio in queste brevi giornate, quando celata da tenebre sempre
più fitte e ridotta quasi a un nulla la luce si prepara all’inversione di
rotta. Dall’espirazione all’inspirazione, dallo spegnersi lento a una
ripresa impetuosa. Di nascosto però, forse perché tutto quanto
riguarda la vita nei suoi più delicati risvolti avviene, di preferenza, al
buio. Il concepimento, il germogliare dei semi, il pensiero d’amore.
Ma anche il mistero fondante del cristianesimo, la nascita di un
bambino divino in un paesaggio che, come quello del giardino
invernale, si manifesta sotto il segno del segreto, dell’incorporeo
quasi. All’apparenza spoglio, sprigiona energie invisibili: la fragranza
sciropposa del calicanto, quella speziata appena del nocciolo delle
streghe, il balsamo inebriante di una certa lonicera. Se il giardino è
specchio dell’anima, di questa stagione l’anima pare quasi di poterla
annusare. Accarezzando la corteccia lucida e rossa dei rami spogli
del ciliegio, si fa strada la sensazione che, perso il corpo, resterà
tuttavia un luogo terreno dove aleggiare, e in cuore si insinua una
dolcezza di fede nello sbocciare certo di cose per il momento ancora
invisibili.
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