Al giardino ancora non l’ho detto – Pia Pera

SINTESI DEL LIBRO:
Un giorno di giugno di qualche anno fa un uomo che diceva di
amarmi osservò, con tono di rimprovero, che zoppicavo. Non me
n’ero accorta. Era una zoppia quasi impercettibile, poco più di una
disarmonia nel passo, un ritmo sbagliato. A lungo non se ne
comprese il motivo. La sensazione era che mi si stesse seccando la
gamba destra, come talvolta capita che su un albero secchi un ramo.
Stavo io stessa appassendo. Morire non era più una speculazione
intellettuale, stava realmente accadendo. Molto lentamente e prima
del previsto. Lasciandomi forse il tempo di scrivere in presa diretta
del giardiniere di fronte alla morte.
Anche se, in un certo senso, non ero più un giardiniere. Non in
prima persona, o molto poco. Vangare, zappare, tagliare l’erba,
proprio non se ne parlava più. Anche raccogliere era diventato
complicato: mi mancava l’equilibrio, prima di staccare frutti e ortaggi
dovevo poggiare il mio instabile corpo a un qualche sostegno,
spesso un bastone tra le gambe. Posavo il cesto per terra, perché di
mani libere ne restava una sola. Col tempo mi sono abituata a
considerare il corpo come una sorta di grosso pupazzo che potevo
spostare ma non fermare – a meno di trovare dove metterlo, capire
come puntellarlo. Bastava un appoggio anche minimo. Un ginocchio
contro il bordo di una sedia, la testa contro il muro, anche soltanto
un dito contro il tronco di un albero. Compresi che non avrei
realizzato il mio desiderio di morire sulle mie gambe. Qualcosa che
ero avvezza a considerare mio sacrosanto diritto. Qualcosa di cui,
per anni, ero stata fiera in anticipo. Troppo anticipo.
Mi sono abituata. Non solo: da quando ho perso la me stessa di
un tempo – quella che attraversava fulminea la città, che camminava
instancabile in montagna, che guardava con commiserazione chi si
serviva di taxi e mezzi pubblici invece di andare a piedi – non ho più
avuto malumori. Non so perché. Forse mi sono resa conto che il
tempo è poco, perché mai sprecarlo? O c’è qualcosa di più, in
questa paradossale serenità?
Cos’è cambiato nel mio rapporto col giardino?
È cresciuta l’empatia. La consapevolezza che, non diversamente
da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso
seccare, appassire, perdere pezzi, e soprattutto: non muovermi
come vorrei. Lungi dal vedermi come colei da cui dipende il
benessere del giardino, mi so esposta alle contingenze, vulnerabile.
Se il giardino era stato il luogo dove contemplare metamorfosi e
impermanenza, adesso l’accelerazione della corrente mi costringe a
rendermi conto di esservi io stessa immersa. Non sono più un
osservatore esterno, qualcuno che dispone e amministra. Mi trovo io
stessa in balia. Questo ispira un sentimento di fratellanza col
giardino, acuisce la sensazione di farne parte. Altrettanto indifesa,
altrettanto mortale. Meno sola, in un certo senso. Altrettanto sola?
Se all’inizio mi prendevo cura del giardino, compiendo in piena
autosufficienza tutti i lavori, adesso debbo prendermi cura di me
stessa. Il tempo prima impiegato potando, scavando buche,
bruciando frasche, zappando, falciando l’erba, adesso mi viene
rubato dalle cure necessarie a mantenere me stessa in vita. Quasi
fossi diventata io il giardino. A lavorare chiamo i giardinieri. Mi aggiro
col bastone e indico il da farsi, con la sensazione di essere diventata
simile alla vecchia principessa Greta Sturdza, come si vede in una
delle foto del libro sulla sua tenuta normanna del Vasterival.
Non sono più la stessa persona. Alla diversa andatura, alla
lentezza nel camminare, la circospezione con cui procedo di passo
in passo, la cautela con cui considero se valga davvero la pena di
muoversi o no, corrisponde una percezione nuova del mondo. Credo
che adesso non proverei più lo stesso stupore misto a diffidenza di
fronte alle opere di un’artista scandinava che, anni fa, venne a
trovarmi nel mio podere. Mentre passeggiavamo, non faceva che
chinarsi per raccattare frutti rinsecchiti, foglie appassite, baccelli
anneriti dalle intemperie. Bah! avevo pensato tra me, al giorno d’oggi
qualsiasi gesto passa per arte. L’avevo lasciata fare, per nulla
convinta in cuor mio della qualità o anche solo del senso del suo
lavoro. E del tutto indifferente alle sue «ruberie»; dopotutto, quello
che raccattava era spazzatura: frutti marci, fiori sfatti, qualsiasi cosa
non avesse più corso, uso di mondo.
C’è voluto tempo per cominciare a capire. Non immaginavo
tuttavia che, ben presto, mi sarei percepita anch’io come quelle
povere cose raccattate, al punto d’incontro tra due energie:
conservazione e distruzione. Organismi in decadenza, in bilico tra
essere e non essere. Chissà che un momento prima di venir meno
non si manifestino, con intensità forse acuita, se non vera e propria
bellezza, un pathos, un’espressività insospettati. Quasi che,
rendendo l’anima a Dio, le cose sprigionassero, per un attimo e
quell’attimo soltanto, una qualità che passa inosservata quando il
corpo, godendo perfetta salute, è troppo turgido, troppo opaco,
troppo spesso. Troppo materiale.
Adesso che mi sento come uno di quegli scarti, provo una serenità
diversa, una serenità per la prima volta vera e profonda. Sprigiona
adesso che il corpo ha perso un poco del suo spessore.
La leggerezza interiore nasce forse dal sentirmi libera dalla
zavorra terribile del futuro, indifferente al cruccio del passato.
Immersa nell’attimo presente, come prima mai era accaduto, faccio
finalmente parte del giardino, di quel mondo fluttuante di
trasformazioni continue.
Louise mi scrive invitandomi a chiedermi come desidererei vivere
se tornassi a star bene, se è la malattia l’unica cosa che mi
impedisce di vivere come desidererei.
Saggia domanda. Oggi c’è una luce bellissima. Tornata dalla
piscina (ho nuotato quasi un’ora: lì mi sento perfettamente sana, non
c’è parte di me che non risponda, perfino i piedi sembrano quelli di
sempre – appena esco, però: un pesce fuor d’acqua) ho interrato i
bulbi arrivati ieri nel pacco mandatomi per Natale da Fabio. Tulipani,
muscari, giunchiglie. Li ho mescolati e piantati in parte nei vasi dove
d’estate cresce il basilico, in parte al piede di una rosa e di una
camelia. Questo è un lavoro facile, bastano il vanghetto piccolo e lo
sforzo minimo, impercettibile di scavare una buchetta per il bulbo. Il
sole basso, invernale, gettava ombre lunghe. Avevo i piedi al buio e
la faccia illuminata. Mi sentivo leggera. Come desidererei vivere?
Così, così come sto vivendo, ho pensato, così come vivevo prima,
senza darmi pensiero del corpo. Proprio come prima? No, forse non
farei più tutti quei lavori faticosi. Adesso non ne sento più l’attrattiva.
Quando le forze scemano, anche il rapporto con le cose materiali si
assottiglia. Muoversi con lentezza e concentrazione mi ha insegnato
a sincronizzarmi sulla lunghezza d’onda necessaria a percepire
sensazioni che prima attraversavo di fretta, con la mente fissa sullo
scopo a esclusione di quanto poteva distrarmene.
Mi torna in mente quel brano di Herzen in Dall’altra sponda, dove
scrive che il canto non ha altro scopo che il canto, la vita non ha altro
scopo che la vita. Inutile e gretto volerli subordinare a un fine. Così il
mio esserci?
Ho sempre vissuto, anche quando non pareva, tra scopi, progetti,
o forse sarebbe più veritiero dire che subivo l’aspettativa di chi da
me ne pretendeva. Perché in cuor mio sono sempre stata così, priva
di scopi degni di nota.
All’ultimo controllo mi è stato detto che sono peggiorata, che dal
secondo motoneurone la malattia si è estesa al primo. Questo in
base all’elettromiografia.
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