2084- La dittatura delle donne – Gianni Clerici

SINTESI DEL LIBRO:
La mamma, Livia, stava nel grande sottotetto, vicino alla tavola da
stiro e non lontana dalla tela del gattino, che dipingeva con i soliti
colori acrilici.
La finestra era spalancata sul tratturo che dalla strada asfaltata
conduceva a quella che era stata, secondo la povera nonna Sarah,
la fattoria dei Castelli, la loro famiglia.
Una famiglia di ebrei forzosamente, o saggiamente, convertiti al
Cattolicesimo, all’epoca in cui gli esseri umani ancora credevano alle
religioni.
Dì lì, per solito, Livia vedeva per tempo l’arrivo da scuola di
Evonne, l’unica figlia che aveva voluto, ai tempi in cui aveva deciso
di non sposarsi con Gertrud, la donna che gli studi Psico-SocioAttitudinali le avevano sottoposto nella qualità di persona
complementare alle sue caratteristiche: caratteristiche, secondo il
Ranking Esistenziale, non del tutto comuni.
Il suo identikit, infatti, definiva Livia «una possibile compagna con
modeste inclinazioni alla vita di coppia e alla riproduzione, dedita a
lavori individuali tra cui il giardinaggio e l’orto, gratificata da un
talento professionale insolito per la pittura figurativa. Con particolari
inclinazioni verso ritratti di animali, per lo più domestici. Ha seguito
gli studi all’Università ottenendo regolare brevetto che la ammette a
Mostre collettive delle Amazzoni e le consente di percepire dalla
vendita dei suoi quadri somme necessarie al sostentamento».
Livia guardava quindi dalla finestra, attendendo, dalla scuola della
vicina città, l’arrivo di Evonne, sua figlia, ammessa al Grado quinto
dei Corsi di Élite, quando la sorpresa le fece cadere di mano il ferro
da stiro col quale stava ripassando i pantaloni.
Infatti, di fianco a sua figlia, immersi in un dialogo disinvolto, Livia
aveva scorto un’altra figura umana, incredibilmente quella di un Vir.
La prima cosa che le venne in mente fu che si trattasse di uno dei
componenti della squadra che l’Autorità Campestre assegnava ogni
anno al loro appezzamento di campagna, per la coltivazione sia del
mais che delle vigne; lavori demandati alla categoria dei Vires,
perché giudicati troppo pesanti e perditempo per le superiori attività
delle Amazzoni.
Ma, avvicinatisi i due, Livia si rese conto di alcune caratteristiche
che parevano escludere l’accompagnatore della figlia dalla categoria
dei lavoratori del muscolo: gli mancavano infatti i capelli rasati, la
tuta marrone e gialla, le scarpe dalla pesante suola che, in certe
sottoclassi, dovevano durare quantomeno un anno.
Era elegante, in quel suo maglione a collo alto, che, si rese alfine
conto, ne denunciava l’appartenenza agli Assimilati, e cioè alla casta
più alta – o forse era più esatto – alla casta meno bassa dei Vires.
Indispensabili al rapporto con le Donne, gli Assimilati erano una
sorta di collante tra le due società, una casta alla quale poteva
essere concessa qualche libertà di frequentazione, beninteso per
ragioni costruttive e d’interesse generale, e soprattutto pubbliche.
Ciò detto, Livia prese a domandarsi cosa potesse aver spinto
Evonne a permettere allo sconosciuto una tale confidenza, e, fuor
dalla semplice curiosità, se l’insolito comportamento fosse stato
notato dall’apposita Struttura di Controllo dei rapporti umani.
Nella quale prevalevano spesso sentimenti non proprio nobili, e
interpretazioni simili a quelle che, nella storia antica, venivano
attribuite a certe categorie che parevano inventate da scrittori di
fantascienza: il cosiddetto Sant’Uffizio e altre, prodotti dalla barbarie
di periodi in cui ancora esistevano le religioni maschiliste.
Ma Evonne e il giovane sconosciuto erano ormai giunti al
rettangolo in loietto verde che separava l’aiuola di azalee dalla porta
d’ingresso; e, con infinito sollievo, Livia vide che non si verificava, tra
i due, il minimo contatto fisico che, visto da malevoli estranei,
avrebbe quantomeno provocato una Interrogazione.
Com’era prescritto, i giovani si accomiatarono con il corretto gesto
che lo studio del passato attribuiva ai militari, e cioè la mano destra
tesa a contatto con la tempia destra.
C’erano, non poté evitar di notare Livia, un sorriso beato e uno
sguardo di dolce simpatia tra sua figlia e il Vir, che si protrasse
sinché il giovine non ebbe eseguito un dietro-front per andarsene;
voltandosi tuttavia due volte per agitare il braccio in segno di saluto.
Livia scese dunque dal sottotetto al piano terra, e non si imbatté in
sua figlia se non quando, aperto l’uscio, la vide di spalle, mentre
ancora guardava andarsene lo sconosciuto.
Le rivolse uno sguardo interrogativo, al quale Evonne non rispose
se non con una frase inattesa, una domanda che pareva estranea
alla vicenda: «Se cucinassimo qualcosa, come la nonna, invece che
nutrirci con le solite pillole energetiche, quelle degli uffici e delle
fabbriche?»
Livia si avviò quindi alla dispensa, a prelevarvi riso e burro, spedì
Evonne in giardino a cogliere due foglie di salvia, e mise a bollire il
riso.
Nel frattempo, tornata che fu la figlia, e visto che la sua aria beata
e insieme pensosa permaneva, le si rivolse: «Andata bene la
scuola?»
«Bene», rispose la figlia. «Eccesso di Storia recente, rivisitazione
di tutte le nefandezze che noi povere Donne abbiamo subito nel
passato…»
«Non potrebbero essere più vere», l’interruppe Livia, «ma dimmi,
dove hai conosciuto quel ragazzo, come si chiama?»
«Di soprannome Vijay.»
«Di che etnia?»
«Indiano. Dice che suo bisnonno è venuto qui, da emigrato, ai
tempi delle inondazioni, effetto dell’eccesso di industrializzazione del
Paese, e della conseguente tossicità dell’aria. Paese che allora
faceva parte di una sorta di impero economico, chiamato Bric, e cioè
Brasile, Russia, India e Cina.»
«Ma non erano più scuri, questi indiani?»
«Lo erano, pare. Ma quattro generazioni di inseminazioni tipo le
nostre hanno ridotto la componente indù. Ed è per questo, se l’hai
notato, che ha addirittura i capelli biondi.»
«Certo che ho notato. È la prima cosa che ho notato, guardandovi
apparire, da lontano», commentò Livia, con aria che voleva parere
distratta. E continuò: «Dove l’hai conosciuto?»
«A scuola», e vedendo l’incredulità di sua madre aggiuns: «Hanno
iniziato a utilizzare una palestra dismessa nel giardino del nostro
Istituto, mentre – mi ha spiegato Vijay – attendono il restauro di
un’altra, riservata ai Vires.»
«Che tipo di scuola?»
«Scuola di arti e mestieri, soprattutto mestieri, se le arti sembrano
ridursi a quelle manuali, fabbricazioni di oggetti di uso quotidiano,
dalle scope alle cornici di quadri, mi ha raccontato.»
«Cornici, e le sa costruire?»
«Dice di sì. È uno dei migliori della sua scuola. Vuoi che gliene
parli?»
«Perché, pensi di rivederlo?»
«Perché no, mamma?»
«Può essere un handicap, puoi, possiamo, ottenere un giudizio
sociale negativo, se si inizia una qualche dimestichezza con un Vir.
Sai cosa dice il nostro Ottavo Comando.»
«Non desiderare un rapporto che non sia di lavoro con un Vir.»
«Allora te lo ricordi.»
«Per forza. La Maestra Meccanica aveva tanto insistito su quel
Comando che eravamo arrivate a pensare che fosse guasta. Sinché
non era giunta una specialista a verificarne il funzionamento. Ed era
perfettamente programmata!»
«D’accordo. Allora non c’è bisogno che mi ripeta. Guarda che il
riso è pronto. Lavati le mani, e pranziamo.
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