La verità del Freddo. La storia. I delitti. I retroscena. L’ultima testimonianza del capo della banda della Magliana – Raffaella Fanelli

SINTESI DEL LIBRO:
Sono tornato dove tutto è cominciato»
«Non so dire quante volte ho ucciso. Ma ricordo i nomi di tutte le mie
vittime. La cosa strana è che non riesco a contarle. Eppure davanti a
me sono fermi e chiari gli ultimi istanti delle vite che ho interrotto.
Ricordo dov’eravamo. Come ho ucciso e perché l’ho fatto… Ricordo
tutto. Tranne il numero.»
È la risposta che mi ha accompagnata per tutte le pagine di questo
libro. Una frase arrivata fra due segnali orari di un cellulare
programmato per ricordare a Maurizio Abbatino le scadenze
giornaliere delle sue pastiglie. Una risposta impressa nella mia mente
insieme al sorriso amaro di chi l’ha pronunciata. Un boss stanco, vinto.
In attesa dell’ultimo colpo di pistola. «Qualcuno ha già ordinato la mia
morte. La mia condanna sarà eseguita ora che questa persona è in
carcere a scontare la sua. Lo Stato sarà il suo alibi…»
Alla fine di una strada apparentemente infinita, percorsa per
uccidere o per non essere ucciso, l’ultimo colpo di pistola sarà per lui.
Per il Freddo. «Una condanna a morte avallata da chi avrebbe dovuto
proteggermi rispettando i patti. E non lo ha fatto.» Gli scorrono
davanti gli ultimi istanti di un omicidio che non è ancora stato
commesso, il suo. A fare da sfondo, oltre le pareti bianche di un
bilocale con pochi mobili e tante medicine accatastate su una mensola
in legno, c’è il quartiere di sempre. Quello della Magliana. E la città
che tutti dicono di detestare per il degrado in cui è scivolata, per la
corruzione che l’ha consumata, inquinata e divorata fino alle sue
radici. Una Roma che ritrae il paese intero. «Sono tornato dove tutto è
iniziato. Perché è qui che deve finire.»
Sul tavolo in cristallo di fianco alla sedia da cui mi parla ci sarà una
pistola con il colpo in canna. La userà. Terrà lo sguardo fisso davanti a
sé e lo vedrà entrare anche al buio. Sarà una macchia scura che
varcherà la porta in silenzio, o con sfrontato rumore, nella certezza di
trovarsi davanti un uomo inerme e malato. Dovrà essere più veloce,
non potrà permettersi di sbagliare, perché il Freddo non sarà mai né
indifeso né sorpreso.
In questa stanza, dove il sangue delle vittime aspetta di unirsi a
quello malato del carnefice pentito dei suoi delitti, in questo momento
non ci sono armi ma un registratore acceso, pronto a fermare i ricordi,
le accuse e le confessioni di un uomo che ha attraversato i grandi
misteri italiani, che sa della scomparsa di Emanuela Orlandi, che mi
racconta di Enrico De Pedis e dei soldi della mafia, dell’amico Franco
Giuseppucci e dell’omicidio di Aldo Moro.
Confessa, il Freddo. Con attimi di pausa. Attimi di sospensione, di
silenzio, che precedono verità spaventose, emerse da un «non detto»
difficilmente dimostrabile e per questo volutamente occultato in oltre
vent’anni di patto con lo Stato. Verità affiorate con l’incalzare delle
domande ed episodi rievocati per caso, commentando il titolo di un
articolo di giornale. Come in questa mattina di inizio estate del 2017
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