Una vita come le altre – Alan Bennett

SINTESI DEL LIBRO:
C’è un bosco, il canale, il fiume, e sopra il fiume la ferrovia
e la strada. È la prima campagna vera e propria che si
incontra a nord di Leeds, e tornando a casa in treno ci passo
spesso. Però adesso guardo. Ci sono passato per anni senza
guardare perché non sapevo che fosse un posto, che vi fosse
accaduto qualcosa che lo aveva reso un posto, e tanto meno
un posto che mi riguardasse. Sotto il bosco l’acqua è
profonda, scura, e a volte c’è un ragazzino che pesca o una
coppia che porta a passeggio un cane. Dev’essere un luogo
di interesse panoramico. Probabilmente lo era anche allora.
«C’è stato qualche altro caso di malattia mentale nella
vostra famiglia?». La penna di Mr Parr indugia sopra la
casella Sì/No del questionario; mio padre, che lascia
rispondere me, abbassa gli occhi sul suo cappello e tace.
«No» dico io, sicuro, e papà si rigira il cappello tra le mani.
«Comunque,» prosegue Mr Parr garbato, ma, come
sappiamo tutti e tre, con più tatto che sincerità «la
depressione non è proprio una malattia mentale. Ne vedo
tanta...».
Mr Parr ne vede tanta perché è l’assistente sociale dei
servizi di salute mentale del distretto di Craven, e questa
sera di fine settembre 1966 io e papà siamo seduti nel suo
ufficio spoglio con il pavimento di linoleum, sopra la stazione
di polizia di Settle, a spiegargli di mia madre.
«Quindi non ci sono precedenti?».
«No» rispondo tranquillo, senza esitazioni. Dopotutto in
famiglia sono io quello che ha studiato. Sono stato a Oxford.
Se ci fossero stati «precedenti», lo saprei. «No, non è mai
successo nulla».
«Be’,» interviene papà, e l’informazione è destinata tanto a
me quanto a Mr Parr «una volta in effetti ha avuto qualcosa.
Appena prima di sposarci». E mi guarda con aria contrita.
«Ma era più una faccenda di nervi. Diversa da questo».
Il «questo», diverso dall’altro, era un improvviso,
sconcertante mutamento della personalità di mia madre. Nel
giro di qualche settimana aveva perso tutta la sua vitalità e
tutto il suo spirito diventando irritabile, apprensiva,
refrattaria ai ragionamenti e alle rassicurazioni. Di giorno in
giorno il suo umore si faceva più nero, accompagnandosi a
fantasie e fissazioni: la casa era spiata, mio padre doveva
parlare sottovoce perché c’era qualcuno sul pianerottolo, la
tazza del water (sempre centrale nella sua concezione del
mondo) veniva monitorata ogni volta che si tirava lo
sciacquone. Aveva iniziato a dormire con la borsetta sotto il
cuscino, come se si trovasse in un albergo sconosciuto e
pericoloso, finché una volta era scappata di casa in camicia
da notte. Papà l’aveva ritrovata per strada ed era riuscito a
riportarla indietro solo dopo una certa resistenza.
A Leeds, dove i miei avevano sempre vissuto, questo
comportamento sarebbe potuto passare inosservato. Invece
la depressione di mamma iniziò quando si trasferirono in un
minuscolo villaggio nella zona dei Dales – lì si conoscevano
tutti, e perciò la sua condotta non poteva rimanere nascosta.
La consapevolezza di dover abbandonare il relativo
anonimato della città per entrare in una comunità ristretta
dove «la gente sa tutto di tutti» poteva essere una delle
cause del problema. Mia madre sarebbe diventata molto più
visibile di prima («al centro dell’attenzione») . O così sta
dicendo Mr Parr.
I miei genitori avevano sempre desiderato stare in
campagna e avere un giardino. Papà, che a Leeds era nato e
vissuto, ricordava le vacanze che faceva da bambino in una
fattoria di Bielby, nell’East Riding, come un paradiso
perduto. Il villaggio in cui stavano per trasferirsi era molto
grazioso; troppo, per l’umor nero di mamma. «Vedrete»
diceva. «Ce li troveremo tutti a casa nostra».
Mamma e papà in giardino, 1966
Il cottage dava sulla strada principale ma sul retro aveva
un lungo giardino, e sembrava proprio il posto che avevano
sempre sognato. Era il 1966. Qualche anno dopo scrissi uno
sceneggiato per la TV, Sunset Across the Bay, in cui due
pensionati, non dissimili dai miei genitori, lasciano Leeds per
andare a vivere a Morecambe. Quando la corriera imbocca la
M62 per traghettarli verso una nuova vita, la moglie
esclama: «Addio, lercia Leeds!». E così era sembrato anche
ai miei. Ma adesso papà si sentiva dire che proprio
l’agognata fuga aveva inflitto a sua moglie questa prova
crudele. Ovviamente non ci voleva credere.
Durante le ultime settimane a Leeds aveva imputato lo
sconforto di mamma allo stress dell’imminente
cambiamento. Invece la depressione continuò anche dopo il
trasloco, e a quel punto papà si appigliò alle condizioni della
casa, incolpando le stanze spoglie, ancora tutte da arredare.
«Mamma starà meglio quando ogni cosa sarà al suo posto»
diceva. «Non sopporta la confusione». Perciò, mentre lei
sedeva tutta impaurita su una sedia di ferro in corridoio, lui
si dedicava ai lavori.
Anche mio fratello, venuto su da Bristol per dare una mano
nel trasloco, pensò fosse tutta colpa della casa, e in
particolare di un elemento che pareva in cima alle lamentele
di mia madre: l’assenza della moquette sulle scale.
Probabilmente sapevo già che quello era solo l’inizio, e
infatti quando mio fratello convocò seduta stante una ditta
locale che in due giorni posò la moquette mamma sembrò
farci poco caso; continuò ad avere la luna storta, finché mio
fratello tornò a Bristol e io a Londra.
Nei dieci anni successivi questa divenne la regola. Arrivava
una crisi depressiva e andavamo da loro per un po’, ma
quando non si profilava un rapido recupero ce la
squagliavamo alla svelta, mentre papà rimaneva lì a
barcamenarsi. Era il suo badante, come si dice oggi. Anche
noi ci occupavamo di lei, naturalmente, ma facevamo
comunque le nostre vite. Papà invece era in pensione: aveva
tutto il tempo del mondo, no?
«Il dottore le ha dato delle pasticche,» disse papà al
telefono «solo che non funzionano». Le pasticche
funzionavano di rado, anche quando si capiva in anticipo che
cosa stava per succedere e si interveniva presto. La crisi si
apriva con mamma che si sedeva su sedie insolite: lo
sgabello di sughero in bagno, la sedia di ferro nell’ingresso,
che era lì solo per bellezza e che nessuno usava mai se non
per appoggiarci l’ombrello. Ammutolita dall’infelicità e
dall’angoscia, si appollaiava in corridoio e mi faceva segno di
non entrare nel salotto vuoto, perché c’era qualcuno.
«Non devi dirlo a nessuno...» sussurrava.
«Non devo dire a nessuno che cosa?».
«Quello che ho fatto».
«Non hai fatto nulla».
«Ma tu non glielo dirai, vero?».
«Mamma!» sbottavo, esasperato, ma lei mi copriva la bocca
con la mano indicando la porta del salotto, dopodiché su un
foglio scriveva PARLANO a lettere tremolanti, scrollando la
testa senza fiatare.
Con l’andar del tempo queste inutili conversazioni
diventarono meno confidenziali e meno affettuose. La loro
topografia si espanse notevolmente: spesso i due
protagonisti non erano nemmeno in stanze attigue. Papà
sedeva davanti al caminetto in salotto mentre mamma, in
lacrime, stava piantata sulla soglia della dispensa. In mezzo
c’era la cucina, vuota.
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