Una vita sprecata – Giampietro Valerio

SINTESI DEL LIBRO:
In questo periodo storico dell’Italia la crescita economica era
alle stelle, l’inflazione era al quindici per cento e le aziende
soprattutto in Lombardia crescevano ad una velocità esagerata. In
pochi anni molti imprenditori divennero ricchissimi e questo tipo di
mentalità iniziò a diffondersi su tutto il territorio padano.
Questi nuovi industriali non ebbero neanche il tempo di
realizzare che a loro disposizione avevano un tale potere economico
e molti di loro, spesso “acerbi”, si vantavano oltre che mostrando
beni materiali anche con comportamenti ed atteggiamenti molto
particolari.
Acquistare auto di lusso, belle case, orologi, ed al tempo
stesso comportarsi in modo singolare, era diventato comune
specialmente per i figli di questa classe abbiente. Si sentivano a loro
modo superiori ed il loro comportamento andava al di sopra di quello
che le persone normali potevano avere, fare e sognare.
A quel tempo c’era un paesino in Brianza, vicino a Monza, di
nome Villasanta. Era piccolo paese di poche centinaia di abitanti
dove viveva e prosperava la famiglia Giussani. Il capostipite di
questa famiglia era Gustavo Giussani che in questi anni riuscì a fare
fortuna con il duro lavoro. Aveva una sessantina di anni ma ogni
mattina era in piedi alle 4:30 carico e pronto per andare in fabbrica,
la sua fabbrica, la sua creatura, fondata una trentina d’anni prima.
Aveva iniziato, “Il Gustàf”, come garzone da un falegname
che faceva sedie, in dialetto si chiamavano “Le cadreghe”. Si
spaccava la schiena “Il Gustàf” e anche se aveva solo la quinta
elementare, capì immediatamente che la sua strada era quella di
farle e venderle da solo, le cadreghe.
Piano piano iniziò da una bottega e anno dopo anno si
allargò, arrivando nei primi anni Settanta a possedere nel centro
della Brianza un piccolo impero. Aveva un’azienda che non
produceva solo sedie ma anche salotti, cucine e camerette per
bambini.
Negli anni aveva selezionato ed assunto di persona tutti, uno
dopo l’altro, i suoi duecentoventi dipendenti che abitavano e
vivevano quasi tutti in Brianza; qualcuno a Monza, qualcuno a
Sovico, molti a Lissone e a Desio che erano paesi grossi in quegli
anni, e quei pochi che arrivavano da Milano o Cantù erano quasi
visti come dei “Forestieri”.
“Il Gustàf” era un uomo alto quasi un metro e ottanta, spalle
dritte che compivano un angolo retto con le braccia; era un po’ rude,
iniziava a lavorare prestissimo e tornava a casa quando non c’era
più nessuno in azienda. Rincasava sempre dopo le 20:00 e ad
aspettarlo da quasi trent’anni c’era sempre lei, l’Ambrogina, una
donna devota, casa e chiesa.
Si erano conosciuti alla fiera di Carate, la sorella
dell’Ambrogina conosceva la sorella del “Gustavo” e da subito si
erano piaciuti, “Il Gustàf” appena conosciuta le aveva chiesto:
«Da duvè che ta vegnat?» [Dove vivi?]
e lei rispondendo con voce squillante e ferma disse:
«Da ca’ mia» [Da casa mia].
In realtà l’Ambrogina abitava poco distante a Vimercate e dopo
quella risposta secca non si lasciarono più.
Si sposarono dopo tre anni. Lui dopo aver comprato la casa
tutta in contanti le chiese se voleva sposarlo. Acquistò la loro villa a
Villasanta a quattrocento metri dal laboratorio che presto sarebbe
divenuta la fabbrica del “Sciur Gustàf Giussani”. Tutte le terre intorno
alla fabbrica erano sue e l’obiettivo era sfruttare quegli spazi per
costruire allungamenti del capannone. E così poi fece.
Tutto il corredo lo decise l’Ambrogina. Le tende le tovaglie e
tutti i mobili; il “Sciur Gustàf” prima di costruirli direttamente in ditta
chiedeva sempre prima alla sua fidanzata:
«La camera te la voret marun o bianca? E la cusina?» [La
camera la vuoi marrone o bianca? E la cucina?]
Tutti i mobili li fabbricò lui ma in realtà le decisioni furono tutte
dell’Ambrogina.
Usò tutti legni di prima qualità e soprattutto fece mobili che
dovevano durare negli anni. Tutto era stato fatto in legno massello;
cucina in rovere, camera letto in palissandro, soggiorno in noce, i
mobili in cantina per il vino decise di farli in zebrano ma dopo
qualche anno si stancò, era troppo “Pesante” lo zebrano, disse. Le
sue bottiglie di marca non si vedevano bene quindi ricostruì tutto in
olmo qualche anno dopo, perché aveva un profumo che si sposava
bene con il vino.
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