Una telefonata dal paradiso – Mitch Albom

SINTESI DEL LIBRO:
Il giorno in cui il mondo ricevette la sua prima telefonata dal paradiso,
Tess Rafferty stava scartando una confezione di bustine di tè.
Driiiinn!
Ignorò lo squillo e conficcò le unghie nella plastica.
Driiiinn!
Affondò l’indice nella parte pieghettata sul lato.
Driiiinn!
Alle fine, strappò l’involucro, poi lo tolse del tutto e lo accartocciò nel
palmo della mano. Sapeva che sarebbe scattata la segreteria se non avesse
preso la cornetta prima di un altro…
Driii…
«Pronto?»
Troppo tardi.
«Uff, quest’affare» borbottò. Sentì scattare la segreteria sul bancone della
cucina e partì il messaggio registrato.
«Ciao, sono Tess. Lasciate nome e numero di telefono. Vi richiamerò
appena possibile, grazie.»
Risuonò un piccolo bip. Tess sentì qualche interferenza. E poi.…
«Sono la mamma… Ho bisogno di parlarti.»
Tess smise di respirare. Il ricevitore le sfuggì di mano.
Sua madre era morta quattro anni prima.
Drriiing!
La seconda chiamata si sentì a malapena al di sopra di una chiassosa
discussione alla stazione di polizia. Un impiegato aveva vinto ventottomila
dollari alla lotteria e tre agenti stavano dibattendo su cosa avrebbero fatto con
una simile fortuna.
«Ci paghi le bollette.»
«Questo è quello che non fai.»
«Una barca.»
«Paghi le bollette.»
«Non io.»
«Una barca!»
Drriiing!
Jack Sellers, il capo della polizia, tornò verso il suo piccolo ufficio. «Se ci
paghi le bollette, non fai altro che accumulare nuove bollette» disse. Gli
uomini continuarono a discutere mentre lui raggiungeva il telefono.
«Polizia di Coldwater, parla Sellers.»
Segnale disturbato. Poi la voce di un giovane uomo.
«Papà?… Sono Robbie.»
All’improvviso Jack non sentì più gli altri.
«Chi diavolo parla?»
«Sono felice, papà. Non preoccuparti per me, okay?»
Jack sentì serrarsi lo stomaco. Pensò all’ultima volta che aveva visto suo
figlio, appena rasato con un taglio da soldato, che spariva oltre i controlli di
sicurezza dell’aeroporto diretto verso il suo terzo periodo di servizio militare.
L’ultimo.
«Non puoi essere tu» sussurrò Jack.
Brriiinng!
Il pastore Warren si asciugò la saliva dal mento. Si era appisolato sul
divano nella chiesa battista Harvest of Hope.
Brriiinng!
«Arrivo.»
Si alzò in piedi a fatica. La chiesa aveva installato un campanello fuori
dal suo ufficio poiché, a ottantadue anni, il suo udito si era un po’ indebolito.
Brriiinng!
«Pastore, sono Katherine Yellin. Si sbrighi, per favore!»
Arrancò fino alla porta e la aprì.
«Salve, Ka…»
Ma lei lo aveva già superato, il cappotto mezzo abbottonato e mezzo no, i
capelli rossicci arruffati, come se fosse uscita di casa in fretta e furia. Si
sedette sul divano, si alzò, nervosa, poi si sedette di nuovo.
«La prego, le assicuro che non sono pazza.»
«Ma certo, cara.»
«Mi ha chiamato Diane.»
«Chi ti ha chiamato?»
«Diane.»
A Warren cominciò a far male la testa.
«Ti ha chiamato tua sorella morta?»
«Stamattina. Ho risposto al telefono…»
Katherine si strinse alla borsetta e scoppiò a piangere. Warren si chiese se
non fosse il caso di chiamare qualcuno.
«Mi ha detto di non preoccuparmi» disse la donna con voce roca. «Ha
detto che era in pace.»
«Era un sogno, allora?»
«No! No! Non era un sogno! Ho parlato con mia sorella!»
Le lacrime rotolavano lungo le guance di Katherine, scendendo più in
fretta di quanto lei riuscisse ad asciugarle.
«Abbiamo già parlato di questo, cara.»
«Lo so, ma…»
«Ti manca.»
«Sì.»
«E sei scossa.»
«No, pastore! Mi ha detto che è in paradiso… Non capisce?»
Katherine sorrise, un bel sorriso, un sorriso che Warren non le aveva mai
visto prima di allora.
«Non ho più paura di niente, ormai» disse.
Drrrrinnnnng!
Scattò un campanello della sicurezza, e il pesante cancello della prigione
scivolò lungo il binario. Un uomo alto e con le spalle larghe di nome Sullivan
Harding camminava lentamente, un passo alla volta, a testa bassa. Il suo
cuore batteva forte: non per l’eccitazione di essere stato liberato, ma per la
paura che qualcuno potesse riportarlo indietro.
Avanti. Avanti. Tenne lo sguardo fisso sulla punta delle scarpe. Solo
quando sentì un rumore che si avvicinava sulla ghiaia – passi leggeri, che si
affrettavano – alzò gli occhi.
Jules.
Suo figlio.
Sentì due piccole braccia circondargli le gambe, sentì le proprie mani
affondare nella zazzera di ricci del ragazzino. Vide i suoi genitori – la madre
in una giacca a vento blu navy, il padre in un leggero abito marrone – con i
visi stravolti dall’emozione quando si strinsero in un grande e unico
abbraccio. Era una giornata fredda e grigia e la strada era lucida di pioggia.
Un quadro a cui mancava solo sua moglie, ma la sua assenza era come una
presenza.
Sullivan avrebbe voluto dire qualcosa di profondo, ma tutto quello che gli
uscì dalle labbra fu un sussurro: «Andiamo».
Pochi istanti dopo, la loro automobile scomparve giù per la strada.
Era il giorno in cui il mondo ricevette la sua prima telefonata dal
paradiso.
Quello che avvenne dopo dipende da quanto ci credete.
La seconda settimana
Cadeva una pioggerellina fredda, sottile, fatto non insolito nel mese di
settembre a Coldwater, una piccola cittadina a nord di una parte del Canada e
a pochi chilometri dal lago Michigan.
Nonostante il freddo, Sullivan Harding stava girando a piedi. Avrebbe
potuto prendere in prestito l’auto di suo padre, ma dopo dieci mesi di
reclusione preferiva l’aria aperta. Con addosso un berretto da sci e una
vecchia giacca di pelle scamosciata, superò la scuola superiore che aveva
frequentato vent’anni prima, il deposito di legname che aveva chiuso
l’inverno precedente, il negozio di esche e attrezzatura da pesca con le barche
a remi accatastate come conchiglie, e il benzinaio dove un addetto stava
appoggiato contro il muro, a ispezionarsi le unghie. La città in cui sono nato,
pensò Sullivan.
Arrivò a destinazione e si pulì gli stivali su uno zerbino di paglia con la
scritta DAVIDSON & FIGLI. Quando si accorse di una telecamera sullo stipite
della porta, si tolse istintivamente il berretto, si passò una mano tra i folti
capelli castani e guardò verso l’obiettivo. Dopo un minuto senza risposta si
decise a entrare.
Il calore dell’agenzia di pompe funebri era quasi opprimente. Le pareti
erano rivestite di rovere scuro. Su una scrivania senza sedia era appoggiato
un libro per le firme.
«Posso aiutarla?»
Il direttore, un uomo alto, dalle ossa sottili e pallido, le sopracciglia
cespugliose e i capelli radi color paglia, stava in piedi a braccia incrociate.
Aveva l’aria di andare per i settanta.
«Mi chiamo Horace Belfin» disse.
«Sully Harding.»
«Ah, sì.»
Ah, sì, pensò Sully, quello che ha perso il funerale della moglie perché
era in prigione. Sully lo faceva, finiva le frasi incomplete, perché era
convinto che le parole che le persone non dicevano si sentissero più forti di
quelle dette.
«Giselle era mia moglie.»
«Le mie condoglianze.»
«La ringrazio.»
«È stata una cerimonia deliziosa. Immagino che la famiglia glielo abbia
detto.»
«Sono io, la famiglia.»
«Certamente.»
Rimasero in silenzio.
«I suoi resti?»
«Nel nostro colombario. Prendo la chiave.»
Andò nel suo ufficio.
Sully prese una brochure dal tavolo. La aprì a un paragrafo sulla
cremazione.
I resti della cremazione possono essere sparsi in mare, messi in un
palloncino a elio, dispersi da un aeroplano…
Sully ributtò la brochure al suo posto. Dispersi da un aeroplano. Persino
Dio non avrebbe potuto essere così crudele.
Venti minuti più tardi, Sully lasciò l’edificio con le ceneri di sua moglie
in un’urna a forma di angelo. Provò a portarla con una sola mano, ma gli
sembrò troppo frivolo. Provò a tenerla sulle mani aperte, ma così sembrava
un’offerta. Alla fine se la strinse al petto, con le braccia incrociate, come un
bambino porta la borsa dei libri. Camminò in questo modo per quasi un
chilometro attraversando Coldwater, con i tacchi che affondavano schizzando
nelle pozzanghere. Quando si ritrovò davanti a una panchina di fronte
all’ufficio postale si sedette, appoggiando con cautela l’urna accanto a sé.
Aveva smesso di piovere. Le campane di una chiesa rintoccavano in
lontananza. Sully chiuse gli occhi e immaginò Giselle che gli si appoggiava
al fianco, i suoi occhi verde mare, i capelli nero liquirizia, la figura esile e le
spalle strette che, contro il corpo di Sully, sembravano sussurrare Proteggimi.
Non lo aveva fatto, alla fine. Non l’aveva protetta. Questo non sarebbe
mai cambiato. Rimase seduto per un bel po’ su quella panchina: un uomo
piegato e un angelo di porcellana, come se stessero tutti e due aspettando un
autobus.
Le notizie importanti della vita viaggiano attraverso il telefono. La nascita
di un bambino, un fidanzamento, un tragico incidente su un’autostrada a notte
fonda; quasi tutte le pietre miliari del viaggio dell’uomo, buone o cattive,
sono annunciate da uno squillo.
Tess ora sedeva sul pavimento della cucina, in attesa che quel suono
arrivasse ancora una volta. Nelle ultime due settimane, il suo telefono aveva
portato la più splendida delle notizie. Sua madre esisteva, da qualche parte, in
qualche modo. Si ripeté l’ultima conversazione per la centesima volta.
«Tess… Smetti di piangere, tesoro.»
«Non puoi essere tu.»
«Sono qui, sana e salva.»
Sua madre lo diceva sempre quando chiamava da un viaggio: un hotel,
una SPA, anche una visita ai parenti a solo mezz’ora da lì. Sono qui, sana e
salva.
«Questo non è possibile.»
«Tutto è possibile. Sono con il Signore. Voglio raccontarti del…»
«Di cosa? Mamma? Cosa?»
«Paradiso.»
La linea aveva taciuto. Tess era rimasta a fissare il ricevitore come se
stesse stringendo un osso umano. Era del tutto illogico. Lo sapeva. Ma la
voce di una madre è come nessun’altra; ne riconosciamo ogni cadenza e
sussurro, ogni cinguettio o strillo. Non c’era alcun dubbio. Era lei.
Tess raccolse le ginocchia al petto. Dalla prima telefonata era rimasta in
casa, nutrendosi solo di cracker, cereali, uova sode, tutto ciò che aveva a
disposizione. Non era andata al lavoro né a fare la spesa, non aveva neanche
ritirato la posta.
Si passò una mano tra i lunghi capelli biondi, bisognosi di un lavaggio.
Una reclusa per via di un miracolo? Che cosa avrebbe detto la gente? Non le
importava. Poche parole dal paradiso avevano reso irrilevanti tutte le parole
della terra.
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