Solo un uomo – Alessandra Appiano

SINTESI DEL LIBRO:
Prima di uscire di casa aveva controllato dove si trovava lo studio
del notaio Nicoletta Fasani. Aveva cliccato su Google Maps «via
Borromei, 30» e le era apparsa una strada nel centro storico di
Milano; di quelle austere con palazzi incombenti di sapore asburgico.
Alice era scesa lungo la tromba delle scale leggermente a spirale
che dal suo appartamento la conducevano nell’atrio di marmo a
venature rosa e bordeaux tipico degli anni Sessanta; aveva salutato
Giovanna, la portinaia, donna provata nel fisico che però conservava
una certa allegria innata: a dimostrazione che nella vita ci si adatta a
tutto. O quasi.
Si era poi diretta a passo spedito verso l’edicola dove aveva
comprato i quotidiani (niente di nuovo in quel giugno 2010, la crisi
negata e rimossa c’era, eccome) ed era arrivata all’angolo della
piazzetta, uno slargo che un volenteroso assessore aveva cercato di
rendere ameno con un’aiuola striminzita e la statua sproporzionata
di un santo di cui Alice non conosceva il nome. Se lo chiedeva ogni
volta che vi passava accanto per raggiungere il bar di Edo e
Giancarlo.
Un caffè corposo era l’unico modo per scuoterla dall’inerzia
mattutina. E oggi l’aspettava un incontro importante, sebbene non
sapesse bene di che cosa si trattasse.
Il bar era pieno murato, e le brioche integrali con la marmellata di
lamponi finite da un pezzo. I due soci accoglievano i clienti con un
sorriso smagliante, fisici palestrati e abbronzatura tatuata. Fidanzati
da anni, sembravano l’esempio vivente di come si possa amare ed
essere amati senza intoppi.
Alice aveva bevuto il caffè, risposto a una battuta scherzosa di
Edo, e cinque minuti dopo era già alla fermata della metro alla
stazione Centrale. La calca di Milano le era sempre parsa gestibile,
niente a che vedere con quella di Roma dove un assedio umano
costringeva il turista felice, l’impiegato affannato o la futura mamma
col pancione a lanciarsi in uno slalom gigante tra corpi armati di zaini
contundenti e di trolley rullanti sui piedi. Il ricordo del suo faticoso
periodo romano si era rivelato un discreto ammazza-tempo: senza
quasi rendersene conto si era ritrovata in via Borromei davanti al
civico 30. Le era venuto spontaneo alzare il naso all’insù per
verificare l’imponenza dell’edificio, che a dire il vero metteva una
certa soggezione. Ma ad Alice quasi tutto tendeva a mettere una
certa soggezione. Era sempre stata una ragazza timida, con un
atteggiamento sulla perenne difensiva. Senza perdersi d’animo
aveva cercato l’interno sul citofono in ottone per annunciare il suo
arrivo. Un rumore stridulo, e il portone si era aperto su un androne
lussuoso ma cupo: sul fondo, un ascensore in ferro la stava
aspettando.
La porta d’ingresso allo studio notarile era tappezzata da tante
targhe, troppe, un inutile sfoggio di onore al merito. Sull’uscio si era
palesata subito la segretaria di Nicoletta Fasani, una donnina dai
capelli sfibrati biondo cenere, con un viso smunto che scompariva
dietro un paio di occhiali a culo di bottiglia. Con aria circospetta
l’aveva introdotta nella stanza della Fasani junior, legnosa
ultimogenita di una stirpe monotona (nonno notaio, padre notaio, tre
fratelli notai, mamma depressa). Una famiglia che incarnava alla
perfezione il concetto espresso dallo scrittore inglese Maurice
Baring: «Se volete sapere che cosa Dio pensa del denaro, basta
guardare quelli a cui lo dà».
Nicoletta Fasani si era alzata dal suo trono-scrivania. Eretta, petto
in fuori (una seconda scarsa), aveva assunto una posa artefatta che
tradiva un’avida curiosità. Aveva scrutato Alice come se avesse
voluto assorbire e registrare ogni aspetto di quella ragazza
impacciata: soprattutto, mettere un cartellino con il prezzo ai suoi
jeans scoloriti, alla camicetta bianca e alle ballerine un po’ sformate.
A sua volta, seppur in modo meno volgare, Alice aveva osservato
che i capelli nero corvino (tinti) della notaia, costretti in una coda di
cavallo, mettevano in evidenza orecchie piccole e naso adunco. E
che gli occhi chiari senza profondità, dalle sopracciglia sottili,
corredavano un ovale lineare. Al costo del tailleur crema chantilly
che la strizzava in modo esagerato non aveva osato pensare: Alice
era un tipo prudente, meglio non conoscere i dettagli delle ingiustizie
del mondo.
In ogni caso la notaia le aveva porto la mano salutandola con
modi cordiali. «Benvenuta, signora Giannascoli. Sono contenta di
conoscerla.»
Il tono stridulo della sua voce non passava inosservato. Alice
aveva ricambiato la stretta di mano, chiedendosi come mai quella
donna arcigna fosse contenta di conoscerla, e come mai si fosse
invece affrettata a riconquistare subito la sua postazione dietro la
grande scrivania tardo-barocca.
«Prego si accomodi...»
Aveva indicato una sedia dallo schienale alto, e Alice si era seduta
di fronte a lei: con gesti meccanici e determinati la Fasani aveva
iniziato a trafficare con una cartellina.
«È da molti anni che conosce Camilla, suppongo?»
«Ca... milla?»
Si era messa a balbettare: sentiva di annaspare, inciampando nei
battiti del suo cuore. In un attimo quell’estranea glaciale aveva
risvegliato in lei un timore che si ostinava a sopprimere. Non sapeva
perché diavolo si trovava in quello studio, né cosa pensare. Sapeva
solo che lo smaccato accento milanese di Nicoletta Fasani aveva
sgualcito il nome della sua migliore amica.
Non aveva insistito con i convenevoli, la notaia, e aveva
finalmente taciuto. Inforcati gli occhiali, si era messa a osservare di
sottecchi Alice come se stesse verificando una reazione per lei non
troppo inattesa. Poi, con un sorriso che avrebbe voluto essere
benevolo ma che era risultato ironico, aveva rotto l’imbarazzo che
impregnava l’aria.
«Camilla Berri. È il motivo per cui lei si trova qui, oggi.»
2.
MATERIA DI BILANCIO
Lo aspettava un appuntamento con il solito scrittore egoriferito. Un
classico, per uno che di mestiere fa l’editor, niente di particolarmente
intollerabile, se non fosse stato che in quella mattina di giugno tutto
gli pareva intollerabile. Il colore grigio-beige del cielo milanese
intonato coi mobili del suo ufficio da dirigente senza potere; l’isteria
del direttore editoriale che cresceva con i flop sempre più frequenti
(azzeccare un bestseller? facile come vincere al SuperEnalotto); la
sparizione di Camilla che, tanto per cambiare, aveva sentito
l’esigenza di stupirlo. Era passato poco più di un mese dalla sua
strana partenza e lei gli mancava in maniera esagerata.
Prima di venire ammorbato dal racconto di un poliziesco condito di
esistenzialismo ironico truce, sai l’originalità, Alessandro voleva
prendersi dieci minuti per sé, per cercare di mettere a fuoco una
chiacchierata fondamentale – a posteriori, come ogni cosa
fondamentale – con Camilla. Doveva capire se aveva avuto ragione
a stare tranquillo (suo primo istinto) oppure se avrebbe fatto meglio a
preoccuparsi.
«Qualunque cosa succeda, tu fidati di me: ricordati chi sono...»
Che razza di messaggio in codice era mai quello?
L’ultima sera in cui si erano visti si era deciso per via Lazzaretto. A
seconda del film e del cinema, si cenava poi a casa di Camilla
(ossia, spesso, in un ristorante nei paraggi) oppure a casa sua: dei
due, il più bravo in cucina era lui, e anche il più disposto ad
armeggiare tra pentole e fornelli. Forse stava mettendo a bollire
l’acqua per gli spaghetti, quando Camilla aveva iniziato a disquisire
d’amore e di massimi sistemi.
«Sai, Ale, ultimamente mi sono domandata se nella vita ho
ricevuto una giusta dose di amore e mi rispondo che, dopotutto,
sono stata amata “abbastanza.
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