Sexus-Plexus-Nexus – Henry Miller

SINTESI DEL LIBRO:
Quando la vidi per la prima
volta, nella sala da ballo, doveva
essere un giovedì sera. Mi presentai
al lavoro la mattina seguente, dopo
un'ora o due di sonno, con l'aspetto
di un sonnambulo. La giornata
trascorse come un sogno. Dopo cena
mi addormentai sul divano e mi
destai, vestito di tutto punto, alle sei
della mattina successiva; mi sentivo
completamente riposato, puro di
cuore, e ossessionato da un'idea
fissa... possederla a qualunque costo.
Attraversando il parco, mi domandai
che genere di fiori mandarle assieme
al libro promessole (Wines-burg,
Ohio). Mi avvicinavo ormai ai
trentatré anni, l'età di Cristo
crocifisso. Tutta una nuova vita si
prospettava dinanzi a me, se soltanto
avessi avuto il coraggio di rischiare
ogni cosa. Ma in realtà non c'era
niente da rischiare: mi trovavo sul
gradino più basso della scala, ero un
fallito in ogni accezione del termine.
Era un sabato mattina, e per me
il sabato è sempre stato il giorno più
bello della settimana: mi sento
riemergere alla vita quando gli altri
crollano per la stanchezza; la mia
settimana incomincia con la giornata
ebraica del riposo. Non avevo,
naturalmente, la più pallida idea del
fatto che questa doveva essere la
settimana fantastica della mia
esistenza. Sapevo soltanto che la
giornata sarebbe stata propizia e
ricca di eventi. Fare il passo fatale,
mandare al diavolo ogni prudenza, è
di per sé un'emancipazione: il timore
delle conseguenze non mi passò mai
per la mente. Arrendersi nel modo
più assoluto e incondizionato alla
donna che si ama significa spezzare
ogni legame tranne il desiderio di
non perderla, ed è quello il legame
più terribile di ogni altro.
Trascorsi la mattinata
chiedendo prestiti a destra e a
sinistra, mandai il libro e i fiori, poi
mi accinsi a scrivere una lunga
lettera da recapitare per mezzo di un
fattorino. Le dissi che le avrei
telefonato più tardi nel pomeriggio.
A mezzogiorno uscii dall'ufficio e
rientrai a casa. Ero tremendamente
irrequieto, reso quasi febbrile
dall'impazienza; aspettare fino alle
cinque era una tortura. Tornai a
passeggiare nel parco, dimentico di
tutto mentre camminavo ciecamente
sulle colline erbose, verso il lago
ove i bambini stavano facendo
navigare le loro barchette a vela. In
lontananza una banda stava
suonando; mi riportò alla mente
ricordi della fanciullezza, sogni
soffocati, aneliti, rimpianti. Una
ribellione infocata e appassionata mi
colmava le vene. Pensai a certi
grandi personaggi del passato, a
tutto ciò che avevano compiuto alla
mia età. Le ambizioni che potevo
aver avuto un tempo si erano
dileguate; non esisteva più nulla che
io volessi fare, tranne mettermi
completamente nelle mani di lei. Più
d'ogni altra cosa, volevo udire la sua
voce, sapere che continuava a
vivere, che non mi aveva
dimenticato, di già. Poter mettere
una monetina nella fessura, ogni
giorno della mia vita, a partir da
quel momento, poterla sentir dire
ciao, questo, e nulla di più, era il
massimo che osassi sperare. Se mi
avesse promesso anche soltanto
questo, e la promessa fosse stata
mantenuta, quel che poteva accadere
non avrebbe rivestito alcuna
importanza.
Telefonai puntualissimo alle
cinque. Una voce stranamente
malinconica e straniera mi informò
che ella non si trovava in casa;
cercai di sapere quando sarebbe
tornata, ma la comunicazione venne
interrotta. Il pensiero che Mara fosse
irraggiungibile mi rese frenetico;
telefonai a mia moglie e le dissi che
non sarei rientrato per la cena.
Accolse l'annuncio nella sua solita
maniera disgustata, come se da me
non si aspettasse niente di più che
delusioni e rinvii. «Che le tue parole
possano strozzarti, sgualdrina»,
pensai tra me e me, riattaccando.
«Per lo meno so che non ti desidero,
che non voglio alcuna parte di te,
morta o viva.» Un tram aperto si
stava avvicinando; senza
domandarmi da che parte andasse,
saltai su e mi diressi verso l'ultimo
sedile. Girai così per un paio d'ore,
in preda a un profondo stato di
trance; quando rientrai in me,
riconobbi una gelateria araba nelle
vicinanze del fronte del porto,
discesi, passeggiai sul molo e sedetti
su un trave contemplando il ronzante
traforo del ponte di Brooklyn.
Dovevo far passare ancora parecchie
ore prima che potessi azzardarmi ad
andare nella sala da ballo. Mentre
osservavo con uno sguardo vacuo la
riva opposta, i miei pensieri
vagavano senza posa, simili a una
nave senza timone.
Quando infine mi alzai e mi
allontanai barcollando, ero come un
uomo che, sotto l'effetto di qualche
anestetico, fosse riuscito a
sgattaiolar via dal tavolo operatorio.
Tutto sembrava familiare, eppure
non aveva alcun senso; occorrevano
secoli per coordinare poche e
semplici impressioni che, in base
alla normale correlazione dei
riflessi, avrebbero significato tavolo,
sedia, palazzo, persona. I palazzi
svuotati dei loro automi sono ancor
più desolati delle tombe; quando le
macchine vengono lasciate in ozio,
creano un vuoto più profondo della
morte stessa. Ero uno spettro e mi
muovevo nel vuoto. Mettermi a
sedere, soffermarmi ad accendere
una sigaretta, non sedermi, non
fumare, pensare o non pensare,
respirare o smettere di respirare,
tutto era la stessa cosa. Caschi
morto, e l'uomo alle tue spalle ti
passa addosso; spari un colpo di
rivoltella e un altro individuo ti
spara contro; gridi e desti i morti
che, strano a dirsi, hanno anch'essi
polmoni potenti. Il traffico è ora
diretto a est e a ovest; tra un minuto
sarà diretto a nord e a sud. Tutto sta
procedendo alla cieca, come vuole la
regola, e nessuno sta arrivando in
qualche posto. Dondola e barcolla
dentro e fuori, su e giù. Alcuni
cadono come mosche, altri sciamano
dentro come zanzare. Mangia stando
in piedi, con fessure per le monete,
leve, nichelini unti, unto cellofane,
un unto appetito. Pulisciti la bocca,
rutta, stuzzicati i denti, spingi il
cappello all'indietro, cammina
faticosamente, scivola, barcolla,
fischia, fatti saltare le cervella. Nella
mia prossima esistenza sarò un
avvoltoio che si nutre di nutrienti
carogne: mi appollaierò sulla
sommità di alti edifici e mi lancerò
in picchiata, come un fulmine, non
appena avrò fiutato l'odore della
morte. Adesso sto fischiettando un
motivetto allegro... le regioni
epigastriche sono in pace. «Ciao,
Mara, come stai?» E lei mi rivolgerà
il sorriso enigmatico, gettandomi le
braccia al collo in un caldo
abbraccio. Tutto ciò avrà luogo nel
vuoto, sotto potenti riflettori Klieg,
con tre centimetri di intimità a
delimitare una cerchia magica
intorno a noi.
Salgo gli scalini ed entro
nell'arena, la grande sala da ballo
degli esperti del sesso a doppia
canna; l'arena è illuminata in questo
momento da un caldo bagliore da
boudoir. I fantasmi stanno danzando
il valzer in un soave alone di gomma
da masticare, le ginocchia
lievemente flesse, le anche tese, le
caviglie che nuotano in uno zaffiro
incipriato. Tra i ritmi della batteria
odo la campana dell'autoambulanza
in basso, poi le pompe antincendio,
poi le sirene della polizia. Il valzer è
perforato dall'angoscia, piccoli fori
di proiettili che si aprono sugli
ingranaggi del pianoforte
meccanico, sommerso perché si
trova a isolati di distanza, in un
edificio che brucia e non ha uscite di
sicurezza. Ella non si trova sulla
pista. Può darsi che sia sdraiata a
letto a leggere un libro, può darsi
che stia facendo l'amore con un
campione di pugilato, oppure
potrebbe correre come una matta
attraverso un campo di stoppie, una
scarpa calzata e l'altra perduta,
inseguita da un uomo infoiato di
nome Pannocchia-di-granturco.
Ovunque si trovi, io rimango in una
tenebra completa: l'assenza di lei mi
cancella.
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