Rebel love – Erin Watt

SINTESI DEL LIBRO:
«CIAO, bello.» Morgan, il cane dei Rennick, attraversa di corsa il
prato e mi salta sui pantaloni color cachi, strappandomi una risata.
«Morgan, vieni qui», strilla con voce esasperata la signora
Rennick. «Scusami, Lizzie», aggiunge mentre si precipita a togliermi
di dosso l’enorme cane nero, senza grande successo però. Lei è
così minuta e lui così grosso che sono praticamente della stessa
dimensione.
«Non c’è problema, signora. Mi piace Morgan.» Mi accuccio e do
una grattata dietro le orecchie al cane, che si mette a guaire di gioia
e a sbavarmi su una guancia. «Oh, e sono Beth adesso», ricordo
alla mia vicina. Ho diciassette anni e vorrei davvero, davvero tanto
sbarazzarmi del soprannome Lizzie. Ma purtroppo sembra che
nessuno se lo ricordi.
«Giusto. Allora, Beth, non incoraggiarlo», mi rimprovera lei e lo
tira per il collare.
Lo gratto ancora un po’ e lo lascio andare.
«Tua madre andrà su tutte le furie», commenta la signora Rennick
con una certa preoccupazione.
Abbasso lo sguardo e vedo la mia camicia bianca tempestata di
peli di cane, per non parlare degli schizzi di cibo che mi sono fatta al
lavoro. «Devo lavarla comunque.»
«Dille lo stesso che mi dispiace.» Trascina via Morgan. «Ti
prometto che lo controllerò meglio.»
«Non ce n’è bisogno», rispondo. «Mi piace passare del tempo con
Morgan. Anche se finisco in castigo, ne vale la pena. E poi, non c’è
più motivo per cui non possiamo tenere un animale domestico anche
noi», le dico, a testa alta. Nonostante ai miei genitori non piaccia
ammetterlo, la ragione per cui a casa nostra non ci sono animali non
c’è più da tre anni.
La signora Rennick rimane un attimo in silenzio. Chissà se si sta
trattenendo dall’usare qualche parola dura nei miei confronti per
essere stata tanto diretta, o in quelli di mia madre per essere tanto
severa. Non lo capisco, ma sono troppo vigliacca per insistere.
«Sicuramente tua madre avrà i suoi motivi», replica infine la
donna e mi saluta con un cenno della mano. Non vuole farsi
coinvolgere. Saggia decisione. Nemmeno io lo vorrei.
Quando Morgan e la signora Rennick scompaiono nel garage, mi
volto e osservo casa mia con gli occhi socchiusi. Vorrei essere
ovunque tranne che qui.
Controllo il telefono. La mia migliore amica, Scarlett, non mi ha
ancora mandato nessun messaggio. Stamattina abbiamo parlato di
uscire questa sera dopo il mio turno all’Ice Cream Shoppe. Lunedì
ricomincia la scuola. Per Scarlett, significa la fine di un’estate
trascorsa a divertirsi. Per me, un giorno in meno che mi separa dalla
vera libertà.
Sciolgo i muscoli del collo e delle spalle, nel tentativo di allentare
la tensione che provo ogni volta che vedo casa mia. Con un sospiro
profondo, ordino ai miei piedi di muoversi.
All’interno, l’ingresso è avvolto dalle note di Bad Blood di Taylor
Swift. La playlist di mia madre è fissa su brani del 2015 di Sam
Smith, Pharrell e degli One Direction, ai tempi in cui erano ancora in
cinque. Mi sfilo le orribili scarpe nere del lavoro e appoggio la borsa
sulla panca.
«Sei tu, Lizzie?»
Morirebbe a chiamarmi Beth? Almeno una volta?
Stringo i denti. «Sì, mamma.»
«Per favore, sistema il tuo spazio nel mobile. Comincia a essere
un po’ in disordine.»
Abbasso lo sguardo sulla parte della panca nell’ingresso che mi è
stata assegnata. Non è così tanto in disordine. Ci sono due giacche
appese, una pila di libri di Sarah J. Maas che sto rileggendo per
l’ottantesima volta, una confezione di mentine, un deodorante spray
che mi ha comprato Scarlett agli ultimi saldi da Victoria’s Secret e
diverse cose per la scuola.
Trattenendo un sospiro, ammasso tutto sopra ai libri e vado in
cucina.
«Hai dato una sistemata?» s’informa mia madre, senza nemmeno
distogliere gli occhi dalle carote che sta affettando.
«Sì.» Questo cibo non è per niente appetitoso, ma è sempre così
con qualsiasi piatto dopo che ho finito il turno al lavoro.
«Sei sicura?»
Mi verso un bicchiere d’acqua. «Sì, mamma. Ho fatto pulizia.»
Non sono troppo convincente però, perché lei mette giù il coltello
e va nell’ingresso. Due secondi dopo, la sento urlare: «Lizzie, avevi
detto di aver sistemato».
Argh. Appoggio con forza il bicchiere e la raggiungo. «L’ho fatto»,
esclamo e indico la pila ordinata sopra ai libri.
«E questa?»
Seguo il suo dito e noto la tracolla appesa a un gancio nella parte
accanto alla mia. «Che cos’ha che non va?»
«La tua borsa è nella parte di Rachel», dice. «Lo sai che non le
andava.»
«E allora?»
«Allora? Toglila da lì.»
«Perché?»
«Perché?» Ha il viso teso e strabuzza gli occhi. «Perché? Lo sai
benissimo perché. Levala immediatamente da lì!»
«Io… sai una cosa? Ok.» Stizzita, allungo una mano e sposto la
borsa dalla mia parte. «Ecco. Sei contenta?»
Mia madre tiene le labbra serrate. Si sta sforzando di non fare un
commento sprezzante, ma riconosco benissimo la rabbia nei suoi
occhi.
«Sai che non dovresti», si limita a dirmi, poi se ne va. «E togliti
quei peli di cane di dosso. Gli animali non sono ammessi in questa
casa.»
In preda alla furia, sento formarsi una risposta in bocca, in gola, in
testa. Sono costretta a stringere i denti con tale forza che ho male
alla mascella perché, altrimenti, le parole mi uscirebbero dalle
labbra. Brutte parole, che mi farebbero passare per insensibile,
egoista e gelosa.
E forse lo sono. Forse lo sono davvero. Però sono ancora viva,
non dovrebbe pur contare qualcosa?
Dio, non vedo l’ora del diploma. Non vedo l’ora di andarmene da
questa casa. Non vedo l’ora di uscire da questa stupida e orribile
prigione.
Mi tolgo la camicia con uno strattone. Un bottone si stacca e
rimbalza sul pavimento. Impreco tra me e me. Dopo dovrò implorare
mia madre di riattaccarlo, visto che ho solo questa camicia per il
lavoro. Al diavolo. Chissenefrega. Chissenefrega se non indosso
una camicia pulita. Se per i clienti del negozio qualche pelo di cane e
qualche macchia di cioccolato sono una tale offesa, che guardino da
un’altra parte.
Butto la camicia sporca nel lavatoio e, per sicurezza, mi libero
anche dei pantaloni, poi torno in cucina in biancheria intima.
Mia madre mi accoglie con un gemito di disgusto.
Sto per salire di sopra, quando noto con la coda dell’occhio una
pila di buste bianche sul bancone. La scrittura mi è familiare.
«Cosa sono queste?» chiedo, con una certa apprensione.
«Le tue lettere di ammissione all’università», risponde mia madre,
senza la minima emozione nella voce.
Vengo travolta dal terrore. Con un nodo allo stomaco, fisso le
buste, la scrittura, l’indirizzo del mittente. Che cosa ci fanno qui? Le
prendo e le scorro rapidamente. Usc, University Of Miami, San
Diego State, Bethune-Cookman University.
Se prima ero riuscita a stento a contenermi, adesso scoppio.
Sbatto una mano sulle buste. «Perché ce le hai tu?» domando. «Le
avevo messe nella cassetta della posta.»
«E io le ho tolte», ribatte lei, con gli occhi fissi sulle carote che ha
davanti.
«Perché? Perché hai fatto una cosa simile?» Gli occhi mi si
riempiono di lacrime, come mi capita ogni volta che sono arrabbiata
o sconvolta.
«Perché dovresti mandare le domande? Tanto non andrai in
nessuna di queste università.» Prende una cipolla.
«Che cosa significa ‘tanto non andrai in nessuna di queste
università’?» Le metto una mano sul polso.
Me la sposta e risponde alla mia occhiataccia con uno sguardo
sprezzante e gelido. «Saremo noi a pagarti gli studi, quindi studierai
dove diciamo noi, e cioè al Darling College. Non c’è bisogno che
continui a scrivere domande di ammissione. Abbiamo già compilato
noi al posto tuo quella per il Darling. Dovrebbero ammetterti a
ottobre o giù di lì.»
Il Darling è una di quelle università online in cui è sufficiente
pagare per ottenere una laurea. Non è una vera università. Nessuno
prende sul serio una laurea del Darling. Quando questa estate mi
hanno detto che volevano che studiassi lì, pensavo scherzassero.
Sono sbalordita. «Al Darling? Ma non è nemmeno una vera
università.
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