Ragazze di campagna – Edna O’Brien

SINTESI DEL LIBRO:
Mi svegliai di colpo e mi misi a sedere in mezzo alletto. Quŕndo mi sveglio
cosě vuol dire che qualcosa mi preoccupa, e per un buon minuto non riuscii a
capire perché il cuore mi batteva piů in fretta del solito, Poi rammentai. La
solita storia: non era tornato a casa. Nell’alzarmi indugiai un attimo sulla
sponda del letto, lisciando con la mano la coperta di satin verde; la sera prima
mamma e io ci eravamo dimenticate di piegarla. Scivolai lentamente sul
pavimento: il linoleum era freddo sotto le piante dei piedi. Gli alluci mi si
arricciarono istintivamente. Un paio di pantofole ce le avevo, ma mamma
voleva che le risparmiassi per quando andavo a trovare le zie ed i cugini.
Avevamo anche dei tappeti, ma erano arrotolati e tenuti chiusi nei cassetti
fino all’estate, quando veniva a trovarci qualcuno da Dublino. Mi infilai i
calzettoni. Dalla cucina giungeva un odore di pancetta fritta, ma non bastava
a tirarmi su il morale. Quindi andai a sollevare la persiana. Scattň in alto
all’improvviso e il cordone si attorcigliň. Fortuna che mamma era scesa da
basso, perché mi predicava sempre che le persiane vanno alzate piano piano,
con garbo. Il sole non s’era ancora levato. Il prato era punteggiato di
margherite, ancora profondamente addormentate. C’era rugiada dappertutto.
Una nebbiolina delicata, fluttuante, sfiorava l’erba sotto la mia finestra, la
siepe, la rete metallica arrugginita, e lŕ fuori, la vasta campagna. E foglie ed
alberi erano immersi nella nebbia, e gli alberi avevano un aspetto irreale,
come gli alberi di un sogno. Attorno ai non-ti scordar-di-me che spuntavano a
lato della siepe c’erano aloni d’acqua: luccicante come argento. Era ferma,
del tutto stagnante. Del fumo saliva dalla montagna azzurra in lontananza.
Sarebbe stata una giornata molto calda. Vedendomi alla finestra, Bulls Eyc
sbucň da sotto la siepe, si scrollň l’acqua di dosso e m’indirizzň uno sguardo
pigro, malinconico. Era il nostro cane da pastore e l’avevo battezzato Bulis
Eye perché aveva gli occhi macchiati di bianco e nero, come le scatole di
dolci di quella marca. Di solito dormiva nella carbonaia, ma la notte prima
era rimasto nella tana del coniglio sotto la siepe. Quando papŕ era via
dormiva sempre lŕ, per fare la guardia. Non c’era neanche bisogno di
chiederlo: mio padre non era tornato acasa. Proprio in quel momento Hickcy
chiamň dal pianterreno. Mi stavo sfilando dalla testa la camicia da notte, cosě
sulle prime non potei sentirlo. “Cosa? Cosa dici?” domandai, uscendo sul
pianerottolo avvolta nella coperta di satin. “Buon Dio, sono diventato rauco a
forza di ripeterlo,” esclamň lui con un sorriso raggiante, e chiese: “Per
colazione vuoi un uovo di gallina o di faraona? “Chiedimelo gentilmente,
Hickey, e chiamami tesoro. “Tesoro. Cocca. Cara. Dolcezza, per colazione
vuoi un uovo di gallina o di faraona? “Un uovo di faraona, Hickey.” “Ho qui
per te uno splendido ovino di faraona,” disse lui mentre tornava in cucina.
Sbatté la porta. Mamma non era mai riuscita ad insegnargli a chiudere le
porte con garbo. Era il nostro bracciante e gli volevo bene. Per provarlo, lo
dissi ad alta voce alla Beata Vergine che mi fissava gelida da una cornice
dorata. “Amo Hickey,” dissi. Ella non disse nulla. Mi stupiva il fatto che non
parlasse piů spesso. Una volta mi aveva rivolto la parola e ciň che disse era
molto intimo. Fu quando saltai giů dal letto nel cuor della notte per esprimere
un desiderio. Scendevo dal letto sei o sette volte ogni notte per penitenza.
Avevo paura dell’inferno. “Si, amo Hickey,” pensai. Ma in realtŕ intendevo
dire che lo adoravo. Quando avevo sette o Otto anni, dicevo sempre che
volevo sposarlo. Raccontai a tutti, compreso l’insegnante di catechismo, che
saremmo andati a vivere nel pollaio e mamma ci avrebbe regalato le uova, il
latte e la verdura. La sola verdura che seminavano erano i cavoli. Ma adesso
parlavo meno di matrimonio. Intanto, non si lavava mai, tranne che
spruzzarsi in faccia un po’ d’acqua piovana quando si curvava sul barile, la
sera. Poi, aveva i denti verdi, e da ultimo di notte orinava in un barattolo da
conserva che teneva sotto il letto. Mamma lo sgridava. Di notte non dormiva
aspettando che tornasse a casa, aspettando di sentirlo alzare la veneziana per
vuotare il contenuto del barattolo da conserva fuori, sugli ircos. “Farŕ morire
quelle piante sotto la finestra, com’č vero Dio,” diceva, e qualche notte,
quand’era molto arrabbiata, scendeva da basso in camicia e bussava alla sua
porta e gli chiedeva perché non andava a farle fuori, certe cose. Ma Hickey
non le rispondeva mai, era troppo furbo. Mi vestii rapidamente, e quando mi
chinai per prendere le scarpe scorsi bioccoli di lanugine e polvere e piume
sparpagliati sotto alletto. Ero troppo demoralizzata per spazzare la stanza,
cosě tirai le coperte sul letto ed uscii in fretta. Come al solito, il pianerottolo
era buio. Una brutta vetrata piena di macchie gli dava un’aria lugubre, come
se in casa fosse appena morto qualcuno. “Quest’uovo sarŕ duro come un
sasso,” esclamň Hickey. “Vengo,” dissi. Dovevo lavarmi. La stanza da bagno
era fredda, non c’entrava mai nessuno. Una stanza da bagno abbandonata,
con una chiazza di ruggine sul lavabo, proprio sotto al rubinetto dell’acqua
fredda, una saponetta rosa intatta e un asciugamano bianco, rigido che pareva
rimasto appeso fuori al gelo per tutta la notte. Decisi di non prendermela, e
mi limitai a riempire un secchio d’acqua per la tazza. La cascata non
funzionava; erano mesi che aspettavamo che venisse qualcuno ad aggiustarlo.
Provai una gran vergogna quando Baba, la mia compagna di scuola entrň la
dentro e disse in tono rassegnato: “Ancora in disordine?” In casa nostra le
cose erano o rotte o in disuso. Mamma aveva un paio di forbici da capelli
nuove e vari gomitoli di corda nuova in un armadio al piano di sopra, ma
diceva che se li portava giů gliele avrebbero rotte o rubate. La camera di mio
padre era proprio di fronte al bagno. Buttati su una seggiola c’erano i suoi
abiti vecchi. Lui non era in camera, ma avrei potuto sentir crocchiare le sue
ginocchia; gli crocchiavano sempre quando andava a letto o s’alzava. Hickey
mi chiamň un’altra volta. Mamma era seduta accanto alla cucina e masticava
un pezzo di pane secco. I suoi occhi azzurri erano piccoli e irritati; non aveva
dormito. Fissava diritto davanti a sé qualcosa che soltanto lei poteva vedere,
il destino. Hickey mi strizzň l’occhio; stava mangiando tre uova fritte e varie
fette di pancetta preparata in casa. Intingeva il pane nel tuorlo d’uovo, che
scappava da tutte le parti, poi lo succhiava. “Hai dormito?” chiesi a mamma.
No. T’eri messa in bocca una caramella e te mevo che restassi soffocata se la
ingoiavi tutta intera. Cosě sono rimasta sveglia, non si sa mai.” Avevamo
l’abitudine di tenere sempre sotto il cuscino caramelle e pezzi di cioccolato;
poco prima di addormentarmi m’ero messa in bocca una caramella. Povera
mamma, era sempre in ansia per qualcosa. Immagino che stesse lŕ distesa a
pensare a lui, aspettando il rumore di una macchina che si ferma in fondo alla
strada e poi il fruscio dei suoi passi che si avvicina tra l’erba bagnata e lo
scatto del lucchetto del cancello, sempre aspettando. E tossendo. Tossiva
sempre, quando si metteva distesa. Per questo usava come fazzoletti degli
stracci vecchi che teneva in una borsa di velluto legata alla spalliera d’ottone
del letto. Hickey scappucciň il suo uovo. Era diventato duro, allora ci mise
dentro due pezzettini di burro per rammollirlo. Era un uovo di faraona che
affiorava appena dall’orlo del grosso portauovo di porcellana. Era buffo, un
ovetto in un grosso portauovo, ma aveva un ottimo sapore. Il tč era freddo.
“Posso portare dei lillŕ alla signorina Moriarty?” chiesi a mamma. Mi
vergognavo di approfittare della sua infelicitŕ per portare dei fiori alla
maestra, ma desideravo con tutto il cuore di scavalcare Baba e di diventare la
beniamina della signorina Moriarty. Cara, portale tutto quello che vuoi,”
rispose mamma con aria assente. Attraversai la stanza, le buttai le braccia al
collo e la baciai. Era la mamma migliore del mondo. Glielo dissi, e per
qualche istante ella mi strinse forte a sé, come se non volesse piů lasciarmi
andare. Per lei ero tutto quello che aveva al mondo, tutto. “Le solite frottole
per la mamma,” disse Hickey. Allentai le dita che avevo stretto attorno alla
sua nuca bianca e morbida e mi allontanai da lei, timidamente. Chissŕ dove
era col pensiero, lei, e intanto le galline non avevano ancora mangiato.
Alcune erano venute giů dal cortile a beccare nel piatto di Bulls Eye dietro
casa; potevo sentire Bulls Eye che le rincorreva, e il frullare delle loro ali
mentre svolazzavano, strillando impaurite. “Danno una commedia nel salone
del municipio, signora. Dovrebbe andarci,” disse Hickey. “Dovrei.” La sua
voce suonň un po’ sarcastica. Anche se si fidava pienamente di Hickey, pure
a volte era aspra con lui. Stava pensando. A lui? A dove si trovava? Sarebbe
tornato a casa in ambulanza, o su una carrozza a cavalli noleggiata a Belfast
tre giorni prima e non pagata? Sarebbe inciampato sui gradini di pietra della
porta di dietro, brandendo una bottiglia di whisky? Avrebbe urlato, lottato,
tentato di ucciderla, o si sarebbe scusato? Sarebbe piombato sulla soglia
assieme a qualche pazzo ubriacone, dicendo: “Mamma, ecco Harry, il mio
migliore amico. Gli ho appena dato il pascolo di tredici acri in cambio del piů
stupendo levriero. Tutto questo era giŕ accaduto tante volte che era sciocco
attendersi che mio padre tornasse a casa sobrio. Se ne era andato tre giorni
prima, con sessanta sterline in tasca per pagare le tasse. “Il sale, tesoro,” disse
Hickey, prendendone un pizzico tra il pollice e l’indice e spargendolo sul mio
uovo. “No, Hickey, no.” A quell’epoca mangiavo tutto insipido.
Un’ostentazione. Pensavo che fosse da adulti non usare il sale o lo zucchero.
“Che devo fare, signora?” chiese Hickey, e approfittň dell’apatia di mia
madre per imburrarsi copiosamente il pane da entrambi i lati. Non che
mamma fosse avara in fatto di cibo, ma Hickey stava diventando cosě grasso
che non riusciva piů a sbrigare il suo lavoro. “Andare alla torbiera, mi pare,”
disse lei. “La torba č pronta per essere pressata e potremmo non aver piu una
bella giornata. “Forse non dovrebbe andare cosě lontano,” dissi io. Preferivo
che Hickey fosse nei paraggi quando tornava papŕ. “Potrebbe star via un
mese,” disse lei. I suoi sospiri spezzavano il cuore. Hickey prese il berretto
dal davanzale della finestra e se ne andň a far pascolare le vacche. “Devo dar
da mangiare alle galline,” disse mamma, e tirň fuori una pentola di mangi’me
dal forno dov’era rimasto a bollire tutta la notte. Mentre pestava il mangi’me
delle galline fuori nella stalla, io mi preparai la merenda per la scuola. Agitai
la bottiglia di olio di fegato di merluzzo e l’alimento Parrish in modo da farle
credere che l’avevo preso. Poi tornai a metterla sulla credenza accanto alla
fila di piatti Doulton. Erano un regalo di nozze, ma non li adoperavamo mai
per paura che andassero rotti. Dietro c’erano stipate delle fatture, centinaia di
fatture. Papŕ non se ne curava mai, si limitava a metterle dietro i piatti e poi
se ne scordava. Andai a cogliere il lillŕ. Scrutando i campi, in piedi sul
gradino di pietra, sentii quella folata di libertŕ e di gioia che provavo sempre
quando posavo gli occhi sugli alberi di ogni specie e sugli edifici di pietra
lontano da casa, e sui campi verdissimi e pieni di pace. Oltre la rete metallica
c’era un noce e all’ombra di questo c’erano le campanule, slanciate e di un
azzurro intenso, un pergolato di fiori azzurro cielo tra le lastre di calcare. La
mia altalena oscillava al vento e tutte le foglie su tutte le cime degli alberi si
agitavano lievemente. “Per merenda prenditi un pezzetto di torta e dei
biscotti,” disse mamma. Mi viziava con quel suo darmi sempre leccornie.
Stava rimestando un secchio di mangi’me e di patate, teneva il capo chino e
piangeva nel pastone delle galline. “Cosě va la vita. Uno lavora e gli altri
spendono,” disse mentre usciva nella corte col secchio e con alcune galline
appollaiate sull’orlo di questo che beccavano. Aveva la spalla destra piů
bassa della sinistra a forza di portar secchi; era sfiancata dalle fatiche e dalla
pena di mandare avanti la baracca. E la sera faceva paralumi e paraventi per
abbellire la casa. Uno stormo di oche selvatiche spiccň il volo, lanciando
strida, mentre sorvolava la casa e prendeva terra oltre il boschetto di olmi. Il
boschetto degli olmi era il posto dove andavano le vacche d’estate per stare al
fresco e dove le seguivano le mosche. Giocavo spesso alla bottegaia nel
boschetto con cocci di porcellana e scatole di cartone. Baba ed io ci
mettevamo lŕ a sedere e ci confidavamo i nostri segreti, e una volta ci
togliemmo le mutandine e ci facemmo il solletico a vicenda. Il segreto piů
grande di tutti. Baba diceva sempre che l’avrebbe raccontato in giro, e ogni
volta che lo diceva io le regalavo un fazzolettino di seta o un nastro scozzese
nuovo o qualcos’altro. “Smetti di spazzare, dolcezza mia,” disse Hickey
mentre preparava quattro secchi di latte per i vitelli. “A che pensi, Hickey,
quando pensi?” “Alla passera. Un bel tocco di sposa. pensare č proprio da
scemi,” disse. I vitelli mugghiavano al cancello e quando egli s’avvicinň, uno
per uno ficcarono il muso nel secchio e bevvero avidamente. La vitella con la
testa bianca e gli enormi occhi violetti bevve piů in fretta di tutti, e riuscě a
cacciare il muso anche nel secchio vicino. “Farŕ indigestione,” osservai.
“Povera creatura, le ci vorrebbe un brodino!” “Quando sarň grande voglio
farmi suora: ecco a cosa stavo pensando. “Ma va’ lŕ, suora! Nell’ordine di
Kerry: due teste su un cuscino.” Mi sentii un po’ disgustata e feci il giro per
cogliere i lillŕ. Il bordo di cemento dell’aiuola che correva tutto intorno alla
casa era verde e viscido nel punto in cui a volte traboccava il barile della
grondaia e sotto la finestra, dove Hickey tutte le notti vuotava il contenuto del
suo barattolo da conserva. Quando misi i piedi sull’erba mi si bagnarono i
sandali. “Attenta a dove metti i piedi,” gridň mamma, mentre scendeva dalla
corte con il secchio vuoto in una mano e delle uova nell’altra. Mamma
sapeva le cose prima che le venissero dette. I lillŕ erano bagnati. Gocce
d’acqua simili a mirtilli troppo maturi cadevano sull’erba a ogni rametto che
staccavo. Tornai indietro portandone una bracciata alla rinfusa. “No, porta
sfortuna,” esclamň lei; cosě non entrai in casa. Portň fuori un foglio di
giornale e l’avvolse attorno agli steli perché non mi bagnassi il vestito. Mi
portň fuori il cappotto, i guanti e il cappello. “Fa caldo, non ne ho bisogno,”
dissi. Ma lei insistette, con dolcezza, ricordandomi ancora una volta che ero
delicata di petto. Allora mi misi il cappotto e il cappello, raccolsi la cartella e
presi un pezzo di torta e una bottiglietta di latte per la colazione. Impaurita e
tremebonda mi avviai verso la scuola. Avrei potuto incontrarlo per strada,
oppure lui avrebbe potuto tornare a casa ed uccidere mamma. Mi verrai
incontro? le chiesi. “Si, cara. Appena avrň rimesso in ordine dopo il pranzo di
Hickey ti verrň incontro sulla strada.” “Sul serio?” dissi io. Avevo le lacrime
agli occhi; avevo sempre paura che mia madre morisse mentre ero a scuola.
“Non piangere, amore. Coraggio, adesso č ora di andare. Hai un bel pezzetto
di torta per merenda e poi ti verrň a prendere io.” Mi raddrizzň il cappello in
testa e mi baciň tre o quattro volte, poi restň in piedi sulla soglia a guardarmi.
Salutava con la mano. Aveva un’aria triste, con quel suo abito marrone, e piů
mi allontanavo, piů sembrava triste: un passerotto smarrito nella neve, bruno
e spaurito e solo. Era difficile credere che s’era sposata in un mattino di sole,
con un abito di pizzo, un ampio cappello floscio e gli occhi umidi per la
gioia, quegli occhi che adesso erano gonfi di lacrime. Hickey stava portando
le vacche al pascolo, e lo chiamai. Procedeva davanti a me, i pantaloni infilati
nelle spesse calze di lana, il berretto rigirato in modo che la visiera gli
poggiava sulla nuca. Camminava come un pagliaccio, avrei potuto
riconoscere la sua andatura ovunque. “Che uccello č quello?” chiesi. Sull’
ippocastano in fiore c’era un uccello che pareva dire: “Stammi un po’ a
sentire, stammi un po’ a sentire.” Merlo, rispose lui. “Non č un merlo. Vedo
benissimo che č un tordo.” “Bene, furbacchiona. Allora č un tordo. Ho del
lavoro da sbrigare, non ho tempo d’andare in giro a chiedere agli uccelli il
loro nome, l’etŕ, gli hobby, i gusti in fatto di lumache e cosě via. Come quegli
scemi che vanno a Burren solo per vedere i fiori. I fiori e nient’altro. Sono un
uomo che lavora, questa baracca la tiro avanti io.” Era vero che Hickey
faceva la maggior parte del lavoro, ma anche cosě tutti e quattrocento gli acri
della tenuta stavano andando in malora. “Fila, ragazzina, o ti darň una
sculacciata.” “Come osi, Hickey?” Avevo quattordici anni e pensavo che non
dovesse prendersi queste libertŕ con me. “Su, dammi un uccellino,” disse,
fissandomi con i suoi dolci, enormi occhi grigi. Scappai via, con una
spallucciata. Un uccellino, per lui, era un bacio. Erano due anni che non lo
baciavo piů, da quando mamma mi aveva promesso la cioccolata se l’avessi
baciato dieci volte. Quel giorno papŕ era all’ospedale a rimettersi da una delle
sue sbornie, e fu una delle rare volte in cui vidi mamma allegra. Solo nelle
poche settimane immediatamente dopo le sue sbronze lei poteva prendersi un
po’ di riposo, prima che venisse il momento di angustiarsi per la prossima
ubriacatura. Mamma era seduta sul gradino della porta di dietro, e io le
reggevo una matassa di filo che lei avvolgeva in gomitolo. Hickey tornň dalla
fiera e le disse quanto aveva ricavato da una giovenca, cosě lei mi sollecitň a
baciarlo dieci volte per un pezzo di cioccolata. Attraversai in fretta il prato,
col terrore che lui potesse apparire da un momento all’altro. Lo chiamavano
prato perché una volta, quando la grande casa era ancora in piedi, era un
prato. Poi gli inglesi bruciarono la casa. Mio padre, a differenza dei suoi
vecchi, non aveva passione per la terra e a poco a poco il posto andň in
rovina. Attraversai il tratto pieno di rovi in fondo al campo. Portava al
cancello di vimini. C’era un intrico di rovi e felci tenere, e arbusti di erica e
cardi aguzzi come aghi. Sotto queste piante il suolo era punteggiato di
fiorellini selvatici, a milioni. Spruzzatine di celeste, bianco e violetto: bianche
canzoncine che sgorgavano dalla terra. Com’erano raccolti e belli e preziosi,
nascosti lŕ sotto, tra gli spini e le felci tenere. Passai i lilla da un braccio
all’altro e sbucai sulla strada. Jack Holland mi stava aspettando. Ebbi un tuffo
al cuore quando lo vidi appoggiato al muro. Sulle prime avevo creduto che
fosse papŕ. Erano quasi della medesima statura e tutti e due portavano il
cappello invece del berretto. “Ah, Caithleen, bimba mia,” mi salutň e tenne
fermo il cancello mentre io passavo di traverso. Il cancello si apriva solo un
po’, all’indietro, e ci si doveva schiacciare contro il battente per sgusciar
fuori. Rimise a posto il gancio di ferro, ed assieme a me attraversň la strada
verso l’alzaia. “Come va, Caithleen? Mamma sta bene? Tuo padre brilla per
la sua assenza. Vedo sempre Hickey al caseificio, in queste mattine.” Gli
dissi che tutto andava bene, ricordando la massima di mamma: “Lamentati, e
ti troverai sola.
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