Racconti d’amore, morte e distopica follia – Antonio Casamento

SINTESI DEL LIBRO:
Dedicato a chi ha sofferto a causa della guerra, come il mio
amico Khaled, fuggito da qualche anno dalla sua amata Siria, dove
non può più tornare per rivedere i suoi genitori. O come mio nonno
Antonino, che ha dovuto abbandonare il suo paesino siciliano sul
Tirreno per combattere in Africa, durante la seconda guerra
mondiale.
Mia adorata Léonie,
spero che tu stia bene e che la mamma si sia ripresa almeno in
parte dalla sua malattia. Quella tosse non mi piaceva per nulla e la
sua ostinazione a non volersi recare a Orléans per effettuare gli
accertamenti necessari mi esasperava. I suoi rimedi naturali
possono funzionare per le malattie leggere, ma se vi fosse un
problema più grave soltanto la nostra medicina moderna potrebbe
aiutarla. Tutte quelle preghiere, che recita senza sosta stringendo il
suo rosario, possono salvarle l’anima, al limite, ma di certo non la
vita. Lo spirito positivo del secolo scorso, che fu quello del nostro
Auguste Comte, ci ha insegnato che le soluzioni ai problemi vanno
ricercate nella scienza. Lo sai come la penso. O, almeno, come la
pensavo.
Ma ormai, mia cara Léonie, nemmeno io posso più venerare la
scienza con lo stesso fervore di prima. Non, almeno, dopo aver visto
con i miei occhi gli strumenti di morte creati dalla tecnica. Le
mitragliatrici, quando funzionano tutte insieme, sono mostri metallici
capaci di sputare sul nemico centinaia di migliaia di proiettili in pochi
giorni, e probabilmente milioni in poche settimane. I miei calcoli sono
approssimativi, ma ho visto proiettili abbattersi come un nugolo di
vespe affamate sui nostri soldati che attraversavano i reticolati di filo
spinato e ucciderne migliaia in poche ore. Ho evitato
miracolosamente le granate che mi piovevano addosso e che,
esplodendo, lanciavano schegge che hanno tranciato di netto i piedi
dei miei compagni, o che li hanno privati delle dita della mano o di un
occhio. I gas lacrimogeni o asfissianti, al cloro o al fosgene, e altri
ancora che solo Dio conosce, avvelenano l’aria dei campi di
battaglia irritando i polmoni, la pelle, provocando lesioni esterne ed
interne di ogni tipo.
D’altro canto, sono partito dalle nostre campagne del Berry con
un senso d’impotenza e di frustrazione che tu puoi ben capire. Non
solo non volevo abbandonare la mamma, che da quando è morto il
papà ha soltanto me, ma il pensiero di lasciarti da sola con i bambini
mi faceva rabbrividire. Avrei preferito restare nella mia scuola, nella
mia aula, a insegnare la lingua di Molière ai miei alunni, piuttosto che
imparare a uccidere uomini a me sconosciuti, che portano la divisa
di un colore diverso. Aurélie è così dolce e innocente, eppure così
perspicace. A sei anni, aveva già capito che il suo papà si
allontanava da casa per andare a fare qualcosa di molto brutto. E il
piccolo Jules, che ha appena imparato a camminare, non mi
riconoscerà nemmeno quando ritornerò. Se ritornerò. Perché, amore
mio, io mi sforzo di essere ottimista, ma qui in trincea la via è
durissima e accadono cose spaventose praticamente ogni giorno.
Nemmeno nei miei peggiori incubi avrei immaginato degli scempi
come quelli a cui ho assistito durante la mia permanenza al fronte.
Affido questa lettera disperata al coraggio del mio amico
Etienne, un fante delle nostre regioni che mi è stato vicino nei
momenti più duri, quando il mal di trincea mi stava per risucchiare
nel vortice dell’apatia e della depressione; quando stringevo la tua
foto fra le dita e la fissavo, per non lasciarmi sopraffare dall’orrore e
per non commettere un atto irreparabile. In mezzo a tante armi, ci si
può aggrappare ancor di più al desiderio di vivere, oppure ci si può
lasciar tentare con facilità dal sollievo di una morte rapida e facile. In
mezzo al rumore incessante delle detonazioni, si può arrivare ad
invocare il più profondo dei silenzi, quello in cui la quiete regna
sovrana, senza limitazioni di tempo. Ma il pensiero tuo, dei bambini,
della mamma, mi ha tenuto in vita nonostante tutto.
Purtroppo, ora sono ferito al di sopra del polpaccio, anche se in
modo non grave, e zoppico vistosamente. Pertanto, Etienne, che ha
trovato un modo di fuggire dalla trincea questa notte, non mi
permetterà di seguirlo. È un ragazzo in gamba, questo Etienne,
anche se è stato categorico: nulla lo convincerà a portarmi con lui.
Peccato, perché se la cava in ogni situazione e l’ho visto uscire
indenne da pericoli inimmaginabili. La fuga, nel caos generale che si
è prodotto in seguito agli ultimi avvenimenti, di cui non ti ho ancora
parlato, ha molte possibilità di riuscire. Etienne è un anarchico,
credo, o comunque qualcosa del genere. Sulla guerra la pensa
come me: una carneficina che si poteva evitare e che avrà delle
conseguenze catastrofiche per tutti i popoli europei.
Ti scrivo come posso, di nascosto dai caporali che hanno dato
l’ordine di cessare ogni corrispondenza con il mondo esterno, dopo
l’attacco alla trincea tedesca. Non ci sono parole per descrivere
quello che sta succedendo fra le pianure devastate della Marne. Ma
voglio che tu sappia, e che la Francia sappia, in che orrore ci ha
trasportato questa guerra ignobile. Noi soldati non siamo eroi! Siamo
carne da macello!
So che rischio molto a scrivere apertamente quello che penso.
Ma la febbre brucia insieme alla rabbia e mi riempie di coraggio e,
sicuramente, d’incoscienza. E poi, quello che sto per raccontarti, è
talmente pazzesco che deve uscire dal fango delle trincee, in
qualche modo. Consegnerai la lettera a Jean-Paul, dopo averla letta
e, eventualmente, ricopiata. Provvederà lui a informare chi di dovere
a Parigi. Sempre che le notizie di quanto sta avvenendo in trincea
non si siano già diffuse nel resto della Francia, nonostante gli sforzi
in cui si sta prodigando la nostra gerarchia.
So quanto è complicato in Francia sostenere una posizione
come la mia. Sono orgoglioso di pensare con la mia testa, eppure mi
sento impotente quando constato che nemmeno il sacrificio di Jean
Jaurès, assassinato a tradimento da due proiettili sparati a
bruciapelo da quello squilibrato di Raoul Villain, ha potuto evitare
questa guerra. Anzi! La morte di Jaurès ha precipitato la Francia nel
baratro. Ma io voglio parlare, perché il silenzio è una forma di
complicità. Non me ne avere a male se non ti scriverò una lettera
d’amore simile alle altre che hai ricevuto negli ultimi mesi. La mia è
una testimonianza dall’inferno, questa volta, perché chi ha sofferto
come noi non può più tollerare l’ipocrisia dei discorsi ufficiali e
patriottardi.
Viviamo immersi nel fango e nello sterco, a tal punto che i nostri
stessi vestiti assomigliano a una poltiglia immonda e appiccicosa.
Non ci laviamo più. I pidocchi hanno stabilito la propria dimora fra i
nostri capelli e i parassiti ci tormentano insinuandosi fra le piaghe dei
nostri corpi. Inganniamo i morsi della fame con generosi sorsi
d’acquavite, anche perché le nostre provviste sono infestate dai topi.
Soffriamo un freddo indescrivibile, la notte, e il gelo penetra nelle
ossa fino a farle scricchiolare. Le nostre membra illividiscono,
malamente avvolte dalle coperte luride bucherellate e rosicchiate dai
ratti. Frastornati dal fragore assordante delle esplosioni e dal rombo
continuo dell’artiglieria e delle bombarde, restiamo rannicchiati su
noi stessi, immobili, sperando che il colpo non scoppi troppo vicino.
Ma nulla è peggio dell’acre odore di morte dei cadaveri già verdi e
intaccati dai vermi. I corpi dei soldati francesi e tedeschi, avvolti dalla
nebbia, inumiditi dalla pioggia, affondati nel fango, sembrano ormai
una massa sfilacciata nel mare di carne putrescente che avvelena la
Marne.
Tutto è iniziato qualche giorno fa, quando il fuoco tedesco si è
assottigliato progressivamente, fino a lasciare il posto ad un silenzio
agghiacciante, che ci sibilava nelle orecchie con lo stridore dei nostri
timpani sfregiati dalle detonazioni. È arrivato l’ordine di lanciare
l’attacco. Estenuati, alcuni soldati hanno rifiutato di obbedire.
Probabilmente si trattava di una trappola e i tedeschi ci avrebbero
massacrati, come l’ultima volta. Un fante è arrivato a inveire contro
un superiore e, alle minacce verbali, sono seguiti i fatti: lo ha
schiaffeggiato davanti alla truppa. È stato portato via di forza e sarà
giudicato per insubordinazione dal tribunale militare. In seguito, le
proteste si sono un po’ affievolite.
Abbiamo intrapreso contro voglia l’avanzata, protetti da un
intenso fuoco di copertura e da una fitta nebbia. I tedeschi non
rispondevano, mentre procedevamo fra la melma dei cadaveri
decomposti, che esalavano un odore nauseabondo, a cui è
praticamente impossibile abituarsi. Inciampavamo in una foresta
intricata e paludosa di braccia e di gambe, che al contatto con gli
stivali sembravano vibrare e voler aggrapparsi alle caviglie. Abbiamo
superato, spronati dalle urla dei caporali, le difese della trincea
tedesca, situata a poche centinaia di metri dalla nostra.
Ma il nemico non si era affatto ritirato, come credevamo,
abbandonando le proprie postazioni. I tedeschi sembravano morti,
eppure non lo erano davvero. Ci guardammo tutti con stupore, senza
capire, o forse rifiutando di voler comprendere. I tedeschi erano tutti
cadaveri, con lo sguardo assente dei morti con gli occhi ancora
spalancati, cristallizzati nell’ultimo spasmo che segue l’agonia; con la
faccia grigia e incartapecorita di chi ha esalato l’ultimo respiro. Si
muovevano verso di noi, con un grugnito gutturale che non
prometteva nulla di buono. Erano lenti e claudicanti. Alcuni erano
privi di un arto: un braccio, una mano, una gamba. Chi aveva ancora
le braccia le proiettava in avanti come un sonnambulo, spalancando
la bocca schiumante e insanguinata, che si contorceva in una
smorfia ebete. Chi aveva perso le gambe, si trascinava con la forza
delle braccia, strisciando nel fango e nella polvere. Alcuni di questi
esseri avevano il ventre squarciato e il groviglio purulento e in
necrosi dell’intestino si srotolava fino a lambire il terreno.
Questi cadaveri ambulanti, questi morti viventi, a cui abbiamo
attribuito poi il nome di ritornanti, risorsero dai campi di battaglia in
cui erano caduti per assalire i vivi. Erano così numerosi che era
quasi impossibile evitarli. Sparammo in ogni direzione, fendendo la
nebbia con il piombo degli shrapnel, ma alcuni soldati si lasciarono
sopraffare dal panico e sbagliarono mira, ferendosi o uccidendosi a
vicenda. Allora riattraversammo la pianura correndo a perdifiato,
inseguiti dai cadaveri lenti che tendevano le braccia scarnificate su
di noi. I ritornanti che si levavano dal fango per attaccarci non erano
solo tedeschi. C’erano anche dei soldati francesi, rimasti uccisi nei
precedenti tentativi d’incursione. I compagni di reggimento che
cadevano o si scontravano con i ritornanti si facevano divorare vivi,
mentre si dimenavano per sfuggire alle decine di braccia e di bocche
che subito li assalivano. Masticavano con avidità, i ritornanti,
scavando nelle viscere con una forza sovrumana, ingozzandosi di
carne umana fino a ripulire completamente le ossa dei malcapitati.
Per fortuna, la maggior parte di noi, è riuscita a far ritorno nelle
trincee. Abbiamo capito quasi subito che la tecnica migliore non era
sparare. Infatti, per prendere la mira bisogna fermarsi e i ritornanti,
che sono migliaia, possono circondare un uomo in pochi secondi.
Invece, bisogna restare mobili e correre a zigzag, cambiando
frequentemente direzione. Basta un calcio ben assestato al torace
per far perdere l’equilibrio a un ritornante, che crolla su sé stesso e
ci mette almeno mezzo minuto per rialzarsi.
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