Qualcosa la fuori – Bruno Arpaia

SINTESI DEL LIBRO:
Forse era un fuoco, oppure una lanterna, quel tremolio rossastro in
cima alla collina. Se era davvero una collina quella massa scura che
si intuiva a est, più nera dell’oscurità in cui era immersa, melmosa,
densa, senza sfumature. Steso per terra, appoggiato sui gomiti, Livio
si guardò intorno, scrutando inutilmente nella notte; soltanto gli altri
sensi gli fecero avvertire la moltitudine di corpi distesi accanto a lui
sulla terra secca e polverosa. Quando tirò fuori il binocolo e lo puntò
di nuovo verso est, non c’era più nessuna traccia di quel tremolio,
nemmeno un rimasuglio di bagliore. Forse si era sbagliato, o forse
solo lui l’aveva visto, ma doveva comunque dirlo subito alle guide,
anche se era stanchissimo, se non riusciva ad alzarsi, se aveva
sete, freddo e fame.
Sopra di lui, vide una notte di luna nuova e nuvole che
nascondevano le luci delle stelle. Le stesse nubi immobili che da
mesi e mesi, da quando avevano iniziato il viaggio, spalmavano le
giornate di grigiore, di colori smorti, di aria spessa e calda, mentre le
notti erano tinte di un buio senza scampo, gelido e compatto. Si
lasciò ricadere sulla schiena e chiuse gli occhi, mentre appoggiava
la testa nella polvere. Cinque minuti, sussurrò a sé stesso, cinque
minuti e vado.
La prima cosa che si trovò davanti quando riaprì gli occhi fu la
matassa di capelli ricci di una ragazzina china su di lui, due labbra
secche e screpolate che lo salutavano.
«Buongiorno.»
«Buongiorno» mormorò.
Soltanto allora si accorse che nel frattempo si era veramente fatto
giorno, che dietro il viso della ragazzina una linea di luce affaticata
già pennellava il cielo sui crinali.
«Stava gridando» disse la ragazza. «Mi sono preoccupata.»
Livio annuì e si sollevò sui gomiti. La gente intorno a lui si stava
risvegliando. Chi sbadigliava, chi si stiracchiava, chi camminava
battendo forte i piedi per scacciar via il gelo della notte. Il colore
uniforme della polvere sui corpi e sui vestiti li faceva sembrare un
mare ocra, agitato da onde scapestrate come quei ricci ancora lì
davanti, come quegli occhi neri che gli chiedevano se andava tutto
bene.
«Sì, sì, soltanto un brutto sogno... Comunque, grazie.»
«Mi chiamo Sara» disse lei, rimettendosi in piedi.
«Io invece sono Livio. Grazie ancora.»
«Adesso è tutto a posto? Se ne ha bisogno, mi trova quattro file
indietro.»
La vide allontanarsi tra la gente, scavalcare un paio di bambini
addormentati e scomparire dietro il carro serbatoio. Soltanto allora si
ricordò di quella luce in cima alla collina. Si alzò a fatica, riavvolse la
sua branda di comprex multistrato, la mise nello zaino e guardò ai
lati dell’accampamento. Dov’erano finite quelle maledette guide?
Yasmina, Blanca, Selam, Thérèse, Irina... una qualunque della sua
unità. Continuò a perlustrare la zona con lo sguardo mentre beveva
la sua razione d’acqua cercando di assaporare ogni goccia fino in
fondo, però la barretta della colazione la conservò per dopo.
Richiuse lo zaino, se lo caricò sulle spalle e si avviò in cerca delle
guide verso i carri di filtraggio, superando i primi quattro nuclei, fino
alla zona che divideva la sua unità e la quindici. Fu a quel punto che
le vide: un capannello di uniformi azzurre impolverate sotto il
tendone del corpo di guardia. Discutevano, ma lui non le sentiva.
Quando cercò di andare più vicino, da dietro un carro sbucò una
sentinella che lo fermò puntandogli una vecchia pistola contro il
petto.
«Alt, non si passa. Devi tornare in fila.»
Lui provò a insistere: «Porto un messaggio, è urgente».
«Per chi?»
«Per una delle guide, una qualunque della mia unità... La sedici.»
«No, no, è impossibile. Ti ho detto di tornare indietro» e intanto lo
teneva sotto mira mentre lui arretrava qualche passo a braccia
alzate, d’accordo, sì, tranquilla, me ne vado, finché non si girò e si
avviò: ma piano, voltandosi ogni tanto a controllare cosa succedeva
sotto quel tendone. Si fermò su una gobba del terreno, più o meno
nella terra di nessuno tra le due unità, e si voltò a guardare. Da lì
vedeva ancora le guide che gesticolavano, gli esploratori che
andavano e venivano con le mimetiche sdrucite, le sentinelle che si
raggruppavano, poi raggiungevano i loro posti di fianco alla colonna,
mentre qualcuno, vedendole passare, protestava: perché non hanno
ancora dato l’ordine?, cosa succede?, ormai dovremmo già essere
in cammino.
Livio tornò al suo posto, il quarto della sesta fila, tra la signora
Vargas con il figlio e il vecchio Aziz. Pochi minuti dopo, si sentirono
ordini veloci, la colonna fremette come un brivido e riprese la marcia
verso nord. Erano forse decine di migliaia, un millepiedi lungo tre
chilometri, che procedeva lento in quella pianura screpolata che non
sembrava avere mai una fine. Sotto i loro piedi la terra si sbriciolava
in una sottile polvere giallastra, che si sollevava e poi ricadeva al
loro passaggio, ricoprendo le orme. Qua e là, telai metallici contorti
si stagliavano come cespugli di rovi e macchine agricole
abbandonate formavano sculture spigolose. Attraversarono interi
campi coperti dalle carogne del bestiame, con la mano sul naso per
il puzzo. Poi, finalmente, trovarono una strada. Doveva essere una
vecchia provinciale. Era semicoperta dalla polvere, ma sull’asfalto si
camminava meglio. Le guide indicarono di puntare più a nordovest e
dopo mezzogiorno entrarono in un piccolo paese. Chignolo, si
chiamava. Lo diceva un cartello arrugginito, crivellato da buchi di
pallottole.
«Alt!» ordinò Yasmina, quando gli esploratori dettero il via libera.
Voci, sussulti, eppure la colonna si fermò. Livio si guardò attorno.
Davanti e dietro a sé vedeva solo teste, braccia, spalle e carri. Ai
loro lati, la strada principale era cosparsa di lattine vuote e scatoloni.
File di auto abbandonate erano parcheggiate sotto i platani morti e
c’era terra, ancora terra secca, a ricoprire le carrozzerie e i sedili. Sui
grandi spiazzi che erano stati prati, falò di rifiuti bruciavano senza più
nessuno a sorvegliarli, mentre scuri rigagnoli di fumo
vagabondavano sui tetti delle case. Chissà a Milano che avrebbero
trovato... Forse le guide avrebbero evitato di passarci, nelle città
c’erano ancora bande pronte ad assaltarli. Livio scosse la testa: quel
loro viaggio era un’impresa quasi disperata, eppure l’unica possibilità
era continuare a marciare verso nord. Per arrivare fino in
Scandinavia, se fossero riusciti a sopravvivere, avrebbero impiegato
ancora molti mesi, ma ormai non avevano altra scelta.
«Sosta di un’ora» urlarono le guide. Livio sedette a terra e tirò
fuori la barretta della colazione. Fece quei due bocconi guardando il
sole che baluginava in cielo dietro il sottile grigio delle nubi,
spandendo quella luce gelida, attutita. Per un momento, gli venne
quasi voglia di non rialzarsi più, di rimanere lì a morire, di diventare
polvere anche lui, come quei tanti che si erano già lasciati indietro. E
invece, quando venne l’ordine di marcia, si rimise in piedi. Si guardò
attorno, batté la mano sulla spalla al vecchio Aziz e cominciò di
nuovo a camminare.
Nessuno ricordava più con esattezza quando era cominciato tutto.
Forse perché non c’era stato un vero e proprio inizio, forse perché si
era trattato di una lenta e implacabile alleanza di eventi impercettibili,
di alterazioni minime che, almeno in apparenza, cambiavano poco o
nulla, finché, quasi di colpo, ci si era ritrovati in quel disastro. Teoria
delle catastrofi: una teoria di fine Novecento, che riguardava i
mutamenti improvvisi causati da piccole, successive alterazioni in un
sistema, come il passaggio da un bruco a una farfalla, un nuvolone
che si trasforma bruscamente in pioggia, ma anche quello sfacelo in
cui, quasi senza rendersene conto, il mondo era precipitato.
Livio Delmastro, invece, ricordava. Ricordava benissimo quando,
da bambino, aveva visto la famosa immagine dell’orso polare
intrappolato su un pezzo di banchisa, alla deriva tra i ghiacci
dell’Artico che cominciavano a sciogliersi: il mondo ricco aveva avuto
un brivido. Di fronte a quella foto, milioni di persone con la pancia
piena avevano provato paura, indignazione, terrore dell’apocalisse
che si avvicinava... E poi, subito dopo, avevano pensato ad altro.
Ecco, forse era lì che era cominciata tutta quella storia. Livio aveva
ancora nelle orecchie le frettolose discussioni che ne erano seguite,
le chiacchiere sulle lampadine a basso consumo e sulla necessità di
usare meno le automobili che continuava a sentire dagli adulti e alla
televisione. Ricordava di aver sentito che nel 2015, a Parigi, per la
prima volta 195 paesi avevano sottoscritto un accordo globale sul
clima: a molti era sembrata una svolta, una vera e propria
rivoluzione; e invece, in realtà, gli impegni presi da ogni nazione a
ridurre le emissioni di gas serra, comunque insufficienti, erano
soltanto volontari; per di più, non c’era nessun organismo che
avesse il potere di farli rispettare davvero. E così la rivoluzione si era
trasformata in un fallimento. Ora tutti sapevano che quegli
accorgimenti e quegli accordi erano serviti soltanto a dare alla gente
l’impressione di avere un certo controllo sul proprio destino, ma non
bastavano, anzi erano stati completamente inutili. In fondo, l’umanità
pensava ancora di poter riparare quella crepa nel muro, senza
capire che forse era già tardi: l’incrinatura nella parete si stava
allargando e prima o poi il palazzo sarebbe crollato.
Livio era solamente un ragazzino, allora. Viveva a Napoli, andava
al primo anno delle superiori, impazziva per la musica wak, si
atteggiava a salutista e, come tutti i suoi compagni, si preoccupava
moltissimo per l’ambiente, perciò rompeva le scatole ai genitori
perché smettessero di fumare o perché gli dessero i soldi da
mandare a qualche organizzazione ecologista impegnata a salvare
gli orsi polari o l’ornitorinco. Quando si era iscritto all’università, a
diciott’anni, fumava già un pacchetto di sigarette al giorno e aveva
capito che il problema non si riduceva agli orsi polari che
attaccavano i delfini o ricorrevano al cannibalismo per non morire di
fame. E nemmeno al fatto di dover sopportare estati più calde o
qualche tifone caraibico perfino sulle coste dell’Europa occidentale.
C’erano guasti molto più profondi, ma il mondo era preso da altri
problemi, anche se tutti, politici compresi, si dicevano ambientalisti,
almeno a parole, perché essere «verdi» non costava quasi nulla e
faceva guadagnare voti.
In realtà, solo in pochi avevano davvero annusato l’immensità di
ciò che li aspettava al varco. Perfino gli esperti dell’Onu, quelli
dell’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, che
avevano cominciato a pubblicare regolari rapporti sulla situazione
del pianeta, lanciavano allarmi preoccupati e fissavano limiti
invalicabili alle emissioni di gas serra, ma non erano riusciti a
inserire nelle loro tabelle ogni possibile feedback che forse stava già
influendo sul clima, sottovalutando molti fattori di rischio. La verità è
che non sapevano ancora calcolarli. Parlavano di ridurre del
cinquanta per cento le emissioni inquinanti, di non superare le 450
parti per milione di anidride carbonica nell’atmosfera e di non
oltrepassare i due gradi di incremento della temperatura globale, ma
solo pochi scienziati d’assalto continuavano a ripetere che quelle
misure erano insufficienti, che c’era bisogno di cure più drastiche per
evitare il peggio, se pure era ancora possibile evitarlo.
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