Per una parola di troppo – Antonella Pellegrino

SINTESI DEL LIBRO:
Mi chiamo James Morris, ho ventinove anni e sono etero.
Beh, più o meno. È quello che mi ripeto ogni mattina
davanti allo specchio da qualche mese, una specie di
pratica di convincimento. Il che non è proprio una bugia, ma sembra
che ultimamente io abbia bisogno di ricordarlo. È tutta colpa di Ryan
Walker, il nuovo barista del Bulls, il locale dove io e i miei amici
andiamo almeno quattro sere a settimana. Non più tanto nuovo, in
effetti. Ormai sono quattro mesi che lavora lì, quattro mesi da
quando l’ho visto per la prima volta, da quando ha servito i nostri
shot facendomi restare letteralmente a bocca aperta. Quattro mesi
da quando occupa con insistenza i miei pensieri e i miei sogni. Per
come mi sento al risveglio, sarebbe meglio dire incubi.
Ha lo sguardo disarmante, il sorriso malizioso, sfrontato e spesso
impertinente; è alto, muscoloso e possente, ha i capelli castani con
striature più scure, occhi azzurri e labbra carnose circondate da una
barba folta e ben curata. Braccia robuste coperte da tatuaggi, un
dilatatore al lobo dell’orecchio destro e una maglia a girocollo che
rischiava di strapparsi. Dalla prima volta che l’ho visto, Ryan mi ha
attirato in tutta la sua mastodontica sexytudine come una fottuta
calamita. Erano anni che non mi sentivo attratto da un uomo e
soprattutto non lo sono stato mai così intensamente. Perché sì, non
è la prima volta che mi trovo a pensare a quanto sia sexy e attraente
un uomo.
Probabilmente l’avete capito: nonostante io cerchi di ignorarlo
con tutto me stesso, non sono propriamente etero. In realtà, non so
bene neanche io cosa sono. Molto tempo fa ho fatto il test di Kinsey.
Risultato? “Sei prevalentemente eterosessuale, ma con una
componente omosessuale”. Wow, che sorpresa, eh? Grazie, Alfred,
per avermi detto qualcosa che già sapevo.
È stato facile nascondere questa parte di me, dato che, proprio
come dice il caro Kinsey, preferisco le donne. Dio, adoro le donne,
adoro andarci a letto, tenerle tra le braccia e farle godere. Le venero,
le desidero. Non ho mai dato motivo ai miei amici o genitori di
pensare il contrario e proprio per questo sarebbe uno shock per tutti
sapere che ho avuto delle esperienze con dei ragazzi. D’accordo,
solo due: benché sia stato attratto da uomini, sono riuscito quasi
sempre a controllare i miei istinti gay.
Vi starete chiedendo perché nascondere questa tendenza. Nel
corso degli anni, ho pensato più volte di confessarlo ai miei amici,
soprattutto dopo che Dylan ha recuperato i suoi ricordi, che aveva
perso per il trauma causatogli da suo padre quando lo aveva
picchiato per averlo scoperto con un ragazzo; so che loro, così come
i miei genitori, non avrebbero avuto nessuna difficoltà ad accettarlo.
Purtroppo, ogni dannata volta che ci provavo, le parole mi morivano
in gola. Non ho alcun problema con qualsiasi tipo di identità
sessuale o personale… a meno che non riguardi me. Oh, non che
provi vergogna, è solo che non riesco a tollerarlo. Potrei darvi
diverse spiegazioni, giustificarmi in tanti modi e mentirvi. La realtà è
che non c’è un motivo profondo e serio, come il timore di non essere
accettato da amici e parenti. Solo una serie di piccole motivazioni, o
meglio situazioni vissute.
Avevo quattordici anni quando ho avuto la mia prima esperienza
con un ragazzo. Si chiamava Clifford – che nome del cazzo – e
frequentava la mia stessa scuola, ma lui era all’ultimo anno. Fu con
lui che iniziai a chiedermi se mi piacessero i ragazzi. A causa sua e
di quella maledetta doccia in palestra. Avevamo educazione motoria
nello stesso orario e spesso ci ritrovavamo a fare la doccia negli
spogliatoi. Aveva un fisico asciutto, muscoli appena accennati ma
definiti, il culo tondo e il cazzo grosso per la sua età, scuro e
circonciso. Ne rimasi affascinato e ogni volta che ci incontravamo mi
chiedevo come sarebbe stato toccarlo. Ebbi la risposta fin troppo
presto. Quasi senza rendermene conto, un giorno mi ritrovai in un
box della doccia con Clifford che mi scopava la bocca. Mi piaceva.
Nonostante mi avesse praticamente spinto e poi bloccato contro il
muro, nonostante fosse troppo brusco e anche un po’ soffocante, mi
piaceva.
Poi mi disse quelle parole e io mi gelai.
La mia seconda esperienza gay è stata due anni dopo. In quel
lasso di tempo non provai interesse per nessun ragazzo, il che mi
portò a pensare che quello con Clifford fosse stato un evento unico,
un esperimento finito male. Poi conobbi Bruce Zimmer. Ero in
vacanza a Santa Barbara dai miei nonni e nello stesso viale viveva
la famiglia Zimmer. Brave persone, sempre gentili e affabili, a parte il
figlio. A differenza mia, che ero mingherlino, basso e spigoloso, lui
era alto – circa quindici centimetri più di me – aveva un fisico da
atleta, il viso squadrato, il sorriso furbo, la pelle abbronzata. A prima
vista pensai “che figo” e ne rimasi sconcertato. A quanto sembrava,
Clifford non era stato un evento unico. Nonostante i quattro anni di
differenza, fu facile fare amicizia con Bruce e altrettanto facile fu
iniziare a fare certi pensieri e sogni – dei sogni molto bagnati – su di
lui.
Quando, dopo quasi tre settimane trascorse a chiacchierare sul
lungomare e a improvvisare partite di calcio sulla spiaggia con i suoi
amici, lui mi disse con voce bassa e roca: «Sei così carino che ti
sogno la notte», il mio cazzo si indurì all’istante e io ebbi la conferma
che i ragazzi mi piacevano. Che Bruce Zimmer mi piaceva. Era una
giornata come tante, ma ancora oggi mi tormenta. Eravamo seduti in
riva al mare, entrambi in costume da bagno, la gente intorno a noi
inconsapevole di quanto la mia vita stesse per cambiare. Lo guardai
incerto, odiandomi per le guance arrossate e i battiti del cuore troppo
veloci, e risposi con voce tremula: «Anch’io ti sogno la notte.» Da
come mi guardò, capii che Bruce non ne era sorpreso. Mi spinse
gentilmente con la sua spalla e mi chiese se quella sera mi andava
di stare a casa sua, visto che i suoi genitori avrebbero cenato fuori.
Era una novità per me, ma non ero stupido. Sapevo cosa sarebbe
successo e non vedevo l’ora. Ero nel pieno dell’adolescenza, ormoni
a mille, insomma! Lo desideravo. Volevo fare sesso, cazzo, e volevo
farlo con lui. Avevo una paura fottuta, non sapevo neanche in che
modo l’avremmo fatto, ma ero troppo eccitato per tirarmi indietro.
Quindi, dissi subito di sì. Non me ne vergognavo. Non mi
vergognavo del fatto che mi piacesse un ragazzo o che volessi fare
sesso con lui. Non ci trovavo nulla di strano.
Quando, circa un’ora e mezza dopo il nostro incontro, tornai a
casa, mancò poco che non raccontassi tutto a mia madre per
sfogarmi, dicendole quanto dolore avessi provato, non solo fisico. Le
parole possono far male più di una coltellata, a volte. Per fortuna,
sentivo il bisogno di fare una doccia, prima di tutto. Speravo che
l’acqua, scorrendo sulla mia pelle, portasse via anche tutta la
sofferenza, la delusione, l’angoscia. Sotto il getto dell’acqua fredda,
mi ripromisi che non avrei mai più ceduto a certi desideri. Ero già
uscito con delle ragazze e baciarle mi piaceva. Mi eccitava. Baciare
e toccare le ragazze non mi faceva sentire ferito, umiliato, solo un
oggetto nelle mani di uno stronzo. Non poteva accadere se ero io il
maschio, quello che chiede di uscire, quello che ha il controllo della
situazione. Una ragazza non poteva chiamare me “troia” o
“succhiacazzi”, né prendermi con forza e farmi male. Ero simpatico,
divertente, sfacciato. Un vero combinaguai. Non potevo permettere a
dei ragazzi di trattarmi in quel modo. Non l’avrei mai più permesso a
nessun uomo.
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