Passavamo sulla terra leggeri – Sergio Atzeni

SINTESI DEL LIBRO:
Non sapevo nulla della vita. Antonio Setzu raccontò la storia e
quel che seppi era troppo, era pesante, immaginarlo e pensarlo mi
metteva paura dell'uomo, del mondo e della morte. Dimenticai per
trentaquattro anni. Ora ricordo, parola per parola.
Nella lingua fra i fiumi. Cento e cento case di canne, paglia e
fango. L'alta zicura di limo e tronchi al limite dell'acqua,
trecentotrentatré scalini per arrivare all'altare dove pulsava il cuore
del capro, leggevamo la parola, interrogavamo il cielo e
pronunciavamo oracoli.
Nulla è tanto ordinato e perfetto quanto immotivato e misterioso
come il cielo e la volta stellata che studiavamo ogni notte immersi in
calcoli sulle distanze, le orbite, i cicli.
Distoglievamo il popolo dalle false certezze. Il numero spiega e
aggiunge mistero, come la memoria.
Il contadino chiedeva: «Avremo un buon raccolto, quest'anno?».
Sapendo la casualità della pioggia e del secco, le stagioni consuete
e le infinite varianti, rispondevamo: «Oltre i fiumi, in terre non
lontane, la notte incombe a mezzogiorno, forse sono nuvole di
pioggia, forse nugoli di cavallette».
Era difficile sbagliare. Il pastore chiedeva: «Quanti agnelli
venderò per la festa della luna nel mese delle mandorle aspre?».
Conoscendo il mistero della generazione e quello del gelo
rispondevamo: «Il cuore della terra è nero, forse gli agnelli saranno
quanti le pecore, forse meno, forse nessuno. Quanti sono i tuoi
montoni?». Chiedendo numeri educavamo a contare. Il mercante
chiedeva: «Nella stagione del risveglio il barbaro giungerà a
depredare o il re guiderà i guerrieri a depredare il barbaro?».
Rispondevamo: «Chi può leggere nella mente del re? Glorioso è
il destino del guerriero, felice il destino del mercante. Ma non tutti i
mercanti arrivano a vecchiaia». Era difficile sbagliare. Il ricco figlio
del padrone di capre chiedeva: «Il guerriero accetterà, per dare in
moglie la bella figlia, tredici capre pregne e tre cavalle o invece
riterrà offensiva l'offerta e vorrà spaccarmi il cuore innamorato con
una pietra levigata?». Era difficile sbagliare: «Chi non tenta non
rischia. Chi non tenta non ottiene».
Di un re è stato dimenticato il nome, le domande non sono state
dimenticate.
«Se muoverò guerra nella stagione del risveglio ai barbari di
settentrione, vincerò o perderò la vita?».
Un sacerdote rispose: «In primavera a giorni il sole splende, a
giorni piove».
«Se muoverò guerra in estate vincerò o morirò?».
«Ogni volta che il re guida gli uomini alla guerra per tornare
carico di preda, rischia la vita. Rischia in misura maggiore il re
imbelle che manda all'assalto i guerrieri e guarda dall'alto di un
colle».
«Chi può impedirmi di spaccarti il cuore per sentire se sa darmi
risposta certa?».
«Nessuno può impedirtelo».
«A che serve un uomo che non si arma per difendere la vita?».
«Nessuno può decifrare il disegno».
«A che servono le tue parole?».
«Se combatterai difendendo la vita, il tuo braccio sarà forte,
l'anima del lupo ti abiterà. Se pensando d'essere vincitore non
baderai alle spalle i tuoi figli forse ricorderanno il tuo nome e forse ti
vendicheranno». Era difficile sbagliare. Ognuno era pagato o pagava
per la qualità dell'oracolo.
Il disegno e il moto delle stelle parola del creatore ignoto,
decifrarla massima sapienza. Solo strumento il numero. Il numero,
sacro.
Ogni notte qualcuno leggeva la parola del creatore, all'alba
comunicava i nomi delle sillabe luminose e le distanze all'assemblea
che in coro ripeteva sillabe e misure. Cantando danzavamo.
Da settentrione calarono i barbari che avevano parole di
certezza: Rg era dio. Dovevamo obbedire a Rg o morire. Rg era il
loro capo. Era un gigante nero di pelle, capelli rossi e occhi di fuoco,
un fanatico uccisore incapace di contare fino a tre e di mettere in fila
più di dieci parole. Giunse e aprimmo le porte dell'assemblea,
sorridemmo, lo chiamammo Rg il potente, dio degli dèi, ci
prostrammo, gli lavammo i piedi. Scoprimmo che il nero era fango
spalmato sulla pelle, pittura di guerra, come il rosso dei capelli e del
volto. N'a la bella danzò sul ventre del dio antiche danze d'amore,
cantavamo. Offrimmo un banchetto, capre, meloni e un vino colore
d'oro vecchio. Rg beveva in proporzione alla statura e al numero di
cosce di capra che divorava a morsi feroci. Ingoiava quasi senza
masticare bocconi che avrebbero soffocato un bue, circondato
dall'ammirazione dei fedeli che anche per tanta voracità lo
credevano dio. Versammo nella decima coppa tre gocce di succo
d'erba rossa. Morendo dodici ore dopo avvelenato Rg dimostrò di
essere, per quanto dio, molto meno duraturo del nostro creatore
ignoto e immortale. Fuggimmo con cento cammelli bianchi verso la
costa. Comprammo una nave dagli uomini del mare. Pagammo in
oro e cammelli stanchi. Soltanto il mare che non conoscevamo
poteva proteggerci, i barbari di settentrione lo temevano. Gli uomini
del mare ci catturarono, ci strinsero polsi e caviglie e ci legarono tutti
assieme con una sola corda nel ventre della nave per venderci come
schiavi. Uomini e donne arrivavano al porto da città assalite e
depredate, dicevano che era apparso e avanzava verso il mare Gr,
un dio spaventoso che guidava turbe di armati, elevava torri di teste
di uccisi e torturava i non uccisi chiedendo notizie dei sacerdoti
danzatori lettori del cielo, uccisori del padre. Gli uomini del mare
temettero di lasciare la testa ai vermi. Partimmo subito. Il mare era
cattivo.
Dopo tre giorni e tre notti di mare tumultuoso, paura e
maldiventre, S'u la giovane sfilò gli esili polsi dalla stretta della
corda, con abili mani liberò i piedi, trovò e impugnò un'ascia dalla
doppia mezzaluna di pietra affilata. Una macchia di luce annunciò il
nemico. Un uomo scese barcollando. Veniva a controllare le
condizioni del carico o a prendere un vaso d'olive, un'anfora di vino o
sconvolto come noi dalla violenza delle onde cercava riparo nel
ventre della nave o pensava di violare un sacerdote, calpestando
leggi sacre e sfidando la furia del mare e l'odore intollerabile del
vomito di cento? Prima che il nemico riuscisse a abituare gli occhi
all'oscurità l'ascia calò e gli divise il cranio in due parti uguali. La
nave saltava, volava, ricadeva, batteva sul mare ora con la punta ora
con la coda, ci scagliava sulle pareti, ci lanciava uno contro l'altro.
S'u recise la corda e ci affacciammo alla luce. Gli uomini del mare
avevano calato la vela. Si tenevano abbracciati all'albero. Volando,
saltando, in equilibrio precario ci gettammo addosso al nemico.
Eccetto S'u e la sua ascia eravamo privi d'armi, avevamo unghie e
denti. Molti furono uccisi dal nemico. Molti finirono in mare. Quando
più nessuno combatteva la tempesta si placò e vedemmo attorno
alla nave uomini interi e braccia, gambe, viscere, cervelli.
Galleggiavano. Udimmo urla fino a notte.
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