Niente tranne il nome – Andrea Maggi

SINTESI DEL LIBRO:
L’uomo alla guida era ubriaco fradicio. L’auto zigzagava sul rettilineo nel
buio della notte. Sarebbe stato più saggio fermarsi sul ciglio della strada e
dormire, ma lui non era affatto in condizione di prendere decisioni sagge.
D’un tratto inchiodò, spalancò la portiera, cacciò la testa fuori dall’auto e
vomitò. Si pulì la bocca con la manica, richiuse la portiera e si rimise in
marcia. Sulle prime gli pareva di sentirsi un po’ meglio, ma dopo un
centinaio di metri si fermò e vomitò nuovamente. A quel punto afferrò il
cellulare e compose un numero che conosceva a memoria. Biascicò qualcosa,
quindi riattaccò e ripose il telefonino nella tasca del giubbotto. Dopo
l’ennesima curva imboccata per miracolo, svoltò a sinistra ed entrò in un
paesino in aperta campagna. Si addentrò lungo una strada sterrata, percorse
duecento metri in mezzo ai campi e raggiunse finalmente la sua casa. La città
era alle spalle, a una decina di chilometri in direzione sud-est. Il casolare più
vicino si trovava a quattrocento metri in linea d’aria, in direzione opposta. Da
laggiù, come al solito, non proveniva alcun rumore. A nord l’ampia distesa
dei campi mietuti si estendeva fino alle pendici delle Prealpi. L’uomo
inchiodò bruscamente e cozzò la testa contro il volante. Una famiglia di cervi
brucava le foglie di un piccolo albero di ciliegio piantato qualche giorno
prima. Erano padre, madre e cucciolo. L’uomo alla guida li osservò mentre,
alla luce degli anabbaglianti, brucavano per nulla intimoriti dalla sua
presenza. Il padre cervo era un esemplare bellissimo, con un palco di corna
maestoso. L’uomo fece per uscire dall’auto. Il padre cervo s’impennò sulle
zampe posteriori e partì al galoppo. La madre e il piccolo lo seguirono,
scomparendo nell’oscurità. Intorno non rimase altro che il cielo e il raglio
lontano di un asino. Da lontano giunse il rombo remoto di un’auto solitaria.
L’uomo guardò la casa, un vecchio casolare di campagna piuttosto
malandato, uno dei tanti disseminati nel Nordest friulano, uno dei pochi
ancora abitati. In piedi si stiracchiò e guardò l’orologio. Erano le due e mezza
del mattino. Si voltò verso le montagne, abbassò la cerniera dei pantaloni e
urinò sull’erba. Un brivido gli percorse la schiena e proprio in quel momento
udì alle proprie spalle un fruscio di passi felpati. Si voltò e fece appena in
tempo a distinguere una figura bianca simile a un fantasma che gli si avventò
contro, calandogli un colpo tremendo sul capo. L’uomo sentì le forze venirgli
meno e crollò a terra come un cencio bagnato. La figura vestita di bianco si
guardò attorno, poi perquisì l’uomo a terra. Dalla tasca destra del giubbotto
della vittima prelevò le chiavi di casa e il telefono cellulare. Afferrò il corpo
inerte per i polsi e, facendolo strisciare a faccia all’ingiù sull’erba bagnata, lo
trascinò di peso fin sulla sponda di una piccola roggia artificiale. Lo sistemò
con il busto sporgente oltre la sponda, quindi gli s’inginocchiò accanto e con
spietata risolutezza gli immerse la testa nell’acqua. La resistenza fu ridicola.
Si lasciò affogare quasi con docilità. Quando il corpo smise di rantolare, la
figura vestita di bianco si sollevò in piedi. La vittima giaceva immobile, con
la testa lambita dalla corrente della roggia e i piedi orientati
asimmetricamente. La figura vestita di bianco provò fastidio per quella posa,
e le dette fastidio anche il fatto che, trascinando il corpo, i pantaloni della
vittima si fossero sfilati fin sotto le ginocchia. Affrontare un momento
importante come quello della propria morte con le braghe calate era da vili,
ma la figura vestita di bianco pensò che in fondo era proprio quello che
quell’uomo si era meritato. L’opera non era ancora terminata. Si chinò e lavò
nella corrente della roggia la chiave inglese di cui si era servito per tramortire
la vittima. Poi raggiunse il vecchio casolare, infilò un paio di calzettoni di
cotone sopra le scarpe ed entrò, servendosi delle chiavi appena sottratte. Una
volta dentro mise a soqquadro tutte le stanze. Si avvicinò a una scrivania, ne
aprì tutti i cassetti e gettò il contenuto sul pavimento. Raccolse da terra
soltanto una cartellina di cartone gialla. L’aprì. Conteneva delle vecchie
fotografie di scuola. Le contemplò con attenzione, finché non ne trovò una
che infilò in tasca. In ultimo prese il computer portatile dalla scrivania e se ne
andò. La sua auto sfrecciò a fari spenti lungo la strada sterrata, uscì dal
paesino di campagna, s’immise sulla provinciale e sparì, rapida come un
temporale in alta quota. Attorno al vecchio casolare calò un silenzio cupo,
rotto soltanto dallo scorrere placido dell’acqua nella roggia.
2.
IL COMMISSARIO EUGENIO D’AVANZO
Il professor Fulvio Romoli entrò a scuola un istante prima del suono della
campanella. Aveva una cera cadaverica. Non si accorse nemmeno che la
guardiola dell’ingresso era sguarnita. Ignaro di quell’insolita anomalia, fece
una veloce deviazione in bagno per una sistemata. Si lavò il viso con l’acqua
fresca e si guardò allo specchio. Il riflesso gli restituì l’immagine di un
quarantunenne con due occhiaie spaventose, un po’ troppo magro e con una
barba incolta da clochard a inizio carriera. Dopotutto, però, non gli stava
malissimo. Si rassettò come meglio poté e si precipitò in cortile, prelevò la
sua classe, la condusse in aula, fece l’appello e iniziò la lezione tormentato da
un mal di testa insopportabile. Al termine dell’ora lo assalì una gran voglia di
fumare, ma non aveva abbastanza tempo, così salì al primo piano e optò per
una sosta al distributore automatico. Nell’auletta del caffè trovò Elisa Blasi,
la collega di inglese, che sorseggiava una bevanda calda appoggiata al tavolo
in formica. Elisa aveva quarantasette anni, era un’insegnante ineccepibile e,
come sempre, anche quel mattino il suo aspetto era inappuntabile. Elisa Blasi,
di certo non lo pensava solo Fulvio, era bellissima. I pantaloni attillati
mettevano in risalto le gambe flessuose. I capelli lisci e scuri dai riflessi
ramati scendevano fino alle spalle a incorniciare un viso armonioso con occhi
grandi e castani. Fulvio notò la piega perfetta dell’acconciatura della collega.
«Ti stanno bene», commentò.
«Quando mai un uomo nota che una donna è stata dal parrucchiere?»
domandò Elisa sorpresa. «A me, a dire il vero, non piacciono tanto.»
«Quando mai una donna è uscita dal parrucchiere soddisfatta?» ribatté
Fulvio.
Elisa sorrise, il volto coperto da un velo di inquietudine.
«Qualcosa non va?» le chiese Fulvio, inserendo la chiavetta nel
distributore automatico del caffè.
«Non hai saputo niente?» chiese lei.
Fulvio la fissò attonito.
«Pare che stanotte abbiano ammazzato Mauro Rosso, il bidello.»
Fulvio trattenne il fiato. Solo in quel momento realizzò che quel mattino la
guardiola dell’ingresso era vuota. «Ammazzato?»
Elisa sorseggiò dal bicchiere di plastica. «Proprio adesso un poliziotto sta
parlando con il dirigente.»
Fulvio cadde in preda allo sconcerto. Distratto da mille pensieri, selezionò
una bevanda a caso e la macchina del caffè evacuò un liquido marrone nel
bicchiere di plastica. Fulvio fece per bere, ma all’ultimo momento cambiò
idea e gettò la bevanda nel terriccio di una pianta moribonda accanto al
distributore.
«Devo parlare subito con la polizia!» disse e uscì dall’auletta del caffè
senza dare spiegazioni alla collega.
Bussò timidamente alla porta del preside. Non ottenendo alcuna risposta,
riprovò con maggiore decisione. A quel punto la porta si aprì e dinanzi a
Fulvio comparve il faccione seccato di Eracle Basile, il dirigente.
«Si può sapere cosa vuole, professor Romoli? Santa Madonna, che le è
successo? Ha una cera!»
Eracle Basile, il dirigente scolastico della scuola secondaria di primo grado
Galileo Galilei, era un sessantacinquenne meridionale, calvo e
moderatamente spiritoso: il genere di persona con cui solitamente le
conversazioni non risultavano mai troppo interessanti, ma nemmeno
eccessivamente noiose. Una pasta d’uomo, trasferitosi al Nord ormai da
quarant’anni. Nella sua lunga carriera vantava con orgoglio il primato di aver
diretto decine di istituti senza essere mai incappato in alcun tipo di grana
legale. Portava occhiali a goccia sfumati e due baffi sottili che gli stavano
palesemente male. Negli ultimi anni, forse perché si avvicinava per lui il
momento dell’agognata pensione, la sua indole arrendevole si era, se
possibile, ammorbidita fino ai limiti della remissività. Per contro, i genitori
degli alunni diventavano ogni anno sempre più litigiosi e arroganti, e Basile
cominciava a non essere più in grado di tener loro testa.
«Forse non sa che sto parlando con il commissario di polizia!» proseguì
concitato Basile.
«Sono qui proprio per questo. Se non le dispiace, vorrei parlargli anch’io»,
disse Fulvio.
«E si può sapere perché?» chiese sorpreso il dirigente.
«Credo di essere l’ultimo ad aver incontrato Mauro Rosso ancora vivo.
Prima del suo assassino, si capisce.»
La scrivania di Basile era ingombra di faldoni in precario equilibrio. Fulvio
prese posto dinanzi a quella trincea cartacea di burocrazia, dietro la quale il
telefono squillava con fastidiosa insistenza. L’altra sedia era occupata da un
cinquantenne brizzolato e alto, dai lineamenti decisi e dallo sguardo intenso.
«Professor Romoli, le presento il commissario Eugenio D’Avanzo.
Commissario, il professor Fulvio Romoli.»
«Piacere mio.» Fulvio tese la mano, ma il commissario non si mosse di un
millimetro. Fulvio, interdetto, ritrasse la mano e si appoggiò allo schienale.
«Caro professore, come dicevo al commissario D’Avanzo prima che lei
entrasse, provi a mettersi nei miei panni», disse Basile, accomodandosi dietro
la scrivania. «Quattro plessi di scuola dell’infanzia, sei della scuola primaria
e una scuola secondaria di primo grado, che da sola conta la bellezza di
seicentocinquanta alunni. A tutto questo aggiungete un secondo istituto
comprensivo a reggenza. E poi la gente pensa che io abbia anche il tempo per
rispondere al telefono? Neanche a pisciare, a momenti, vado!»
Fulvio assentì con il capo, restando in rispettoso silenzio. Dal canto suo, il
commissario D’Avanzo, assorto in chissà quali pensieri, fissava
distrattamente il plico di carte che aveva davanti agli occhi.
«Ma voi lo sapete», proseguì il dirigente, «a che ora sono tornato a casa io
ieri sera? Dopo che al mattino ho partecipato alla riunione all’ufficio
scolastico regionale, dopo che al pomeriggio ho presieduto il collegio dei
docenti delle primarie e dopo che alla sera ho presieduto il consiglio
d’istituto? Alle undici! Lo sapete quando mi sono coricato? Alle undici e
quarantacinque, dopo che mia moglie mi ha scassato le palle perché non sono
mai a casa. E lo sapete da che ora sono qui stamattina per sbrigare tutto
questo sfaccimm’e carte? Dalle sei e mezza. Eh, lo vede anche lei,
commissario, come siamo messi, con un personale ausiliario
sottodimensionato e la segretaria che sta più in malattia che in ufficio a
faticare. E intanto la carta si accumula. Il ministero non dà mica tregua, sa? E
poi parlano di in-for-ma-tiz-za-zio-ne. Pfui! Sapete cosa vi dico? Che qua
dentro ci crepiamo, sepolti sotto le carte! Eccola, la loro informatizzazione!
Carte, carte e ancora carte!»
Fulvio osservò con curiosità il commissario D’Avanzo, che sembrava non
poterne più di quel piagnisteo.
«Be’, ma cosa credete? Io, ancora uno o due anni e poi... tanti saluti!»
riprese Basile con un sorrisetto bilioso, mimando con le mani un gesto di
fuga. «Mi fanno pena gli insegnanti quarantenni come lei, professor Romoli!
Perché io in pensione ancora ci vado, tardi, ma ci vado. Ma a voi? Chi ve la
pagherà, a voi, la pensione? Questi ragazzi qua, che sono a scuola adesso?
Iih! State freschi! E quando mai troveranno lavoro, questi qua? Lo stato vi
farà faticare fino a settant’anni suonati e poi, quando ne compirete settantuno,
quelli del ministero vi aspetteranno fuori e, sbam!, una mazzata qui, sulla
capoccia, e tanti saluti al secchio. Così lo stato risparmierà i soldi delle
pensioni e dell’assistenza sanitaria. Ha capito, professore? Due piccioni con
una fava. Anzi, con una mazza!
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