L’ultima notte di Aurora – Barbara Baraldi

SINTESI DEL LIBRO:
La ragazza saliva i gradini con passo lento ma risoluto, accarezzando il
corrimano con le dita. Dopo aver superato una porta con grata metallica al
termine della seconda rampa, si trovò su un pianerottolo in cui si apriva un
varco verso l’esterno. Si trattava di una porticina di legno che lasciava filtrare
spifferi d’aria fredda.
Anche se non era mai stata lì prima d’ora, sapeva che era troppo presto per
fermarsi. Quindi proseguì, oltrepassando alcune scatole di materiale edile
abbandonate sul pavimento, avviandosi su per le rampe successive, dalla
superficie più stretta, quasi strisciando con la spalla sull’adiacente parete di
mattoni.
La luce biancastra che proveniva dalla cima della torre tracciava ombre
geometriche sui muri, tessendo una rete di linee oblique proiettate dalle scale
che si arrampicavano sulla struttura.
Oltrepassò la camera con gli enormi ingranaggi dell’orologio, rivolgendo una
fugace occhiata all’antico meccanismo. Il suo movimento incessante scandiva
un tempo che per lei, però, aveva perso di significato. Dal momento in cui si
era intrufolata nel ventre della torre, era come se avesse smesso di scorrere,
cristallizzato in un presente indefinito. E non importava che il battito fosse
accelerato e il respiro affannoso per lo sforzo della lunga salita. Era animata
da una lucida determinazione, dalla consapevolezza che non c’era spazio per
alcun ripensamento.
La ragazza sapeva quello che doveva fare. La sua mente era sgombra, i
pensieri limpidi. Il corpo rispondeva con un’energia a cui non era abituata.
Era forse per quel senso di compiutezza da cui, finalmente, si sentiva
abbracciata?
Si fermò per riprendere fiato solo quando fu dinanzi a una scala di legno
brunito; sovrastata da un arco di mattoni simile a quello di una chiesa
rinascimentale, avrà avuto centinaia di anni. Quel luogo emanava un senso di
avvolgente sacralità, che si armonizzava con il suo stato d’animo.
Un clangore metallico rimbombò tra le pareti, facendola sobbalzare. Per un
istante ebbe paura che si trattasse della porta d’accesso, e che qualcuno si
fosse accorto della sua intrusione. Rimase in ascolto per alcuni secondi. Ma
erano soltanto gli ingranaggi dell’orologio. Poco dopo, un altro scatto deciso,
accentuato dal movimento dei contrappesi.
Salì gli ultimi gradini, con il legno che a ogni passo restituiva un lieve
cigolio. Dovette chinarsi per sgusciare finalmente fuori, attraverso un angusto
passaggio, sbucando sul ballatoio che sovrastava l’orologio della torre.
I suoi lunghissimi capelli ondeggiavano scossi dal vento.
Erano neri come l’inchiostro, lisci, e davano l’impressione di non essere stati
spuntati da anni, se non per una piccola frangia irregolare, evidentemente
tagliata da mani inesperte. Le ciglia scure spiccavano sul carnato pallido.
Indossava una sottoveste di seta color perla, del tutto inadeguata alla
temperatura di quel dicembre particolarmente rigido, e una felpa di almeno
due taglie più grande, logora soprattutto sui polsini, come se il tessuto fosse
stato usato per strofinare una superficie di cemento.
Da quella posizione, la ragazza poteva vedere l’intera città distendersi di
fronte a lei. Le numerose torri spiccavano altere al di sopra dei tetti, come in
cerca di sollievo dal soffocante dedalo di vie del quartiere medievale. Poco
oltre piazza Maggiore, emergeva tra gli edifici la cupola della chiesa di Santa
Maria della Vita, che ricordava di aver visitato in quinta elementare, prima
che la sua esistenza fosse sconvolta. Prima del Lungo buio.
Rivolse un’occhiata a destra, verso la basilica di San Petronio, con la
caratteristica facciata incompiuta, i contrafforti laterali e le finestre dal profilo
slanciato. Ma non era certo lì per il panorama. I legami con Bologna erano
stati recisi da tempo, e la visione da quell’altezza non faceva che accentuare il
distacco.
«Cosa aspetti? Prendi una decisione! Buttati e falla finita.»
La voce della madre, alle spalle.
La ragazza resistette alla tentazione di voltarsi. Sua madre non poteva essere
lì. Non adesso. L’ ultima volta che l’aveva vista era stato molti anni addietro,
anche se non avrebbe saputo dire quanti. Risaliva a quella che definiva la sua
prima vita, prima del Lungo buio che aveva cancellato l’infanzia e
trasformato il tempo in un’immutabile giornata senza fine. Ma la voce della
madre no, non l’aveva abbandonata mai.
Le capitava di udirla poco prima del risveglio, ed era in quei momenti che si
alzava di scatto per cercare conferma della sua presenza. A volte la
accompagnava da mattina a sera, spesso apostrofandola con quel tono
autoritario, quasi intimidatorio, che le faceva ribollire il sangue.
Non erano mai andate d’accordo, lei e sua mamma. Erano troppo diverse, i
loro caratteri apparentemente inconciliabili, e i litigi parevano infiniti. Come
quel giorno d’estate. L’ ultimo in cui l’aveva vista.
All’epoca aveva undici anni, ma dopo cinque settimane ne avrebbe compiuti
dodici. La madre le aveva detto che non avrebbe potuto continuare le lezioni
di pianoforte, sostenendo che non se le potevano più permettere. Ogni
protesta era stata inutile, la decisione era già presa.
«Anche tuo padre è d’accordo» si era sentita dire.
Aveva stretto i pugni. Un tradimento in piena regola. Almeno papà era
sempre stato dalla sua parte, una volta aveva addirittura sostenuto che con il
suo talento avrebbe potuto frequentare il conservatorio, inseguire una carriera
da solista.
Certo, era stato prima che perdesse il lavoro. Prima che le continue
discussioni tra i genitori sui soldi rendessero l’aria di casa irrespirabile.
Lei e la madre avevano litigato, erano volate parole dure.
Alla fine si era beccata uno schiaffo che le aveva fatto fischiare le orecchie
per alcuni secondi. Poi la donna l’aveva accompagnata in auto dal maestro
Marescotti per l’ultima lezione, salutandolo all’arrivo con un gran sorriso,
come se non fosse successo niente.
«Ipocrita» aveva detto la ragazza.
«Piantala» le aveva fatto eco la madre. «Un po’ di rispetto per la persona che
ti ha messo al mondo.»
La ragazza accarezzò quel ricordo per un istante, prima di farlo scivolare via
insieme a una folata di vento gelido. Sul suo volto comparve l’ombra di un
sorriso. Sapeva bene che non c’era nessuno dietro di lei. Era lucida. La
coscienza vigile. A volte la mente le aveva giocato brutti scherzi, è vero. Ma
non aveva più importanza.
Non c’era più nessuno a trattenerla. Non ora che l’unica persona a cui avesse
mai tenuto l’aveva lasciata per sempre.
Si sentiva come una farfalla uscita dal bozzolo, libera da ogni costrizione.
Si chinò per togliersi le scarpe, un paio di ballerine rosse con il cinturino sul
dorso del piede. Le sistemò con cura sul pavimento, proprio come faceva con
le pantofole quando era bambina, prima di andare a dormire. Le lasciava
sempre accanto al letto, allineate come soldatini. Era così che amava
ritrovarle al mattino, ordinate, in attesa. Poi sfilò la felpa e la ripiegò senza
fretta, appoggiandola al parapetto.
La piazza sotto di lei era animata da passanti, studenti e turisti. I taxi, piccoli
come modellini in scala, percorrevano l’adiacente via dell’Archiginnasio per
parcheggiare in piazza Re Enzo. Dalla distanza si poteva udire, ovattato, il
rumore degli autobus che sfilavano lungo via Rizzoli.
La ragazza con i capelli d’inchiostro si mise in piedi sul ciglio del ballatoio e
spalancò le braccia, assaporando l’aria fredda e il nevischio che fluttuando le
si posava sul viso.
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