L’ombra della montagna – Gregory David Roberts

SINTESI DEL LIBRO:
Le forme della Fonte del tutto, la luminescenza, sono più numerose delle
stelle nel firmamento e basta un pensiero buono per farle risplendere. Eppure un
unico sbaglio può appiccare il fuoco a una foresta nel cuore, oscurando ogni luce
nei cieli. Mentre Terrore continua ad ardere, un amore in frantumi o una fede
smarrita ci fanno credere che sia tutto finito, che non ce la facciamo più. Non è
vero. Non è mai vero. Non importa quali siano le nostre azioni, non importa
dove ci siamo persi, la luminescenza non svanisce mai. Ogni cosa buona che
muore dentro di noi può rinascere, se lo desideriamo con intensità. Il cuore non
sa rinunciare, perché non sa mentire. Alziamo gli occhi dalla pagina che stiamo
leggendo, incontriamo il sorriso di un perfetto sconosciuto, e la ricerca inizia da
capo. Non è come prima. E sempre diverso. E sempre un’altra cosa. A volte la
foresta che ricresce nel cuore segnato da una cicatrice è persino più folta e
selvaggia di quanto fosse prima dell’incendio. E se restiamo in quel bagliore
nascosto, nel nuovo ricettacolo di luce - perdonando tutto, senza mai arrenderci
— prima o poi ci ritroviamo là dove amore e bellezza hanno creato il mondo:
all’inizio. L’inizio. L’inizio.
«Ehi, Lin! Che inizio di giornata!» sbraitò Vikram da un angolo della stanza
buia e umida. «Come hai fatto a trovarmi? Quando sei tornato?»
«Poco fa» risposi indugiando sulla portafinestra della veranda che dava sulla
strada. «Mi hanno detto che eri qui. Puoi uscire un attimo?»
«No, no, vieni dentro, amico!» disse Vikram ridacchiando. «Devi
assolutamente conoscere i ragazzi!»
Esitai. Avevo ancora gli occhi colmi di cielo, e vedevo soltanto grumi
d’ombra nella stanza buia. Riuscii a scorgere nitidamente solo due lame di luce
che filtravano dalle persiane chiuse, trapassando nubi vorticanti che odoravano
di hashish e vaniglia bruciata, la fragranza dell’eroina grezza.
Ricordando quel giorno - l’aroma della droga, le ombre, le lame di luce
ardente che fendevano la stanza - mi sono spesso chiesto se fu l’intuito a farmi
esitare, e come sarebbe cambiata la mia vita se me ne fossi andato.
Le nostre decisioni sono come rami nell’albero delle possibilità. Per tre
stagioni delle piogge, dopo quel giorno, Vikram e gli sconosciuti in quella stanza
diventarono nuove fronde in una foresta che per qualche tempo fu la nostra
comune dimora: una giungla urbana d’amore, morte e resurrezione.
Di quel sussulto d’esitazione, di quel momento che allora non considerai
affatto importante, ricordo soltanto un particolare: quando Vikram uscì dalla
stanza e mi afferrò un braccio per trascinarmi all’interno, rabbrividii al tocco
della sua mano sudata.
Un letto enorme, largo quasi tre metri, era addossato alla parete a sinistra
dell’ingresso e dominava la stanza rettangolare. Un uomo, o forse un cadavere
agghindato con un pajama argenteo, era steso sul letto, le mani intrecciate sul
torace.
Il petto della figura coricata, a quanto potevo vedere, non si alzava né si
abbassava. C’erano due uomini accovacciati sul letto, uno a sinistra e l’altro alla
destra della figura immobile, intenti a preparare dei cilum.
Sul muro sopra la testa dell’uomo morto o sprofondato nel sonno era appesa
un’enorme immagine di Zoroastro, il profeta dei parsi.
Quando abituai gli occhi all’oscurità scorsi tre poltrone disposte lungo la
parete più lontana, sul lato opposto alla veranda. Ogni poltrona era occupata da
un uomo.
Per terra era steso un tappeto persiano grande e prezioso, e ai muri erano
appese diverse fotografie di uomini avvolti nelle vesti tradizionali parsi.
Alla mia destra, di fronte al letto, cera una specchiera con un ripiano di
marmo su cui era sistemato un impianto hi-fi. Le pale di due ventilatori da
soffitto ruotavano abbastanza lentamente da non infastidire le nubi di fumo nella
stanza.
Vikram mi guidò oltre il letto per presentarmi l’uomo seduto sulla prima
delle tre poltrone. Anche lui era uno straniero, più alto di me: il corpo lungo e le
gambe ancora più lunghe erano abbandonati sulla poltrona, come se
galleggiassero in una piscina. Stimai che fosse sui trentacinque anni.
«Lui è Concannon» disse Vikram spingendomi in avanti. «È dell'IRA».
La mano che strinse la mia era calda, asciutta e molto forte.
«Fanculo l'IRA!» sbottò Concannon con un marcato accento irlandese.
«Sono dell’Ulster, l’UDF... ma mica mi aspetto che un pezzo di stronzo come
Vikram capisca la differenza, dico bene?»
Mi piacque lo scintillio spavaldo nei suoi occhi. Non mi piacque il suo modo
di parlare strafottente. Ritrassi la mano e lo salutai con un cenno del capo.
«Non dargli retta» intervenne Vikram. «Dice un sacco di stronzate, ma non
ho mai conosciuto uno straniero che sappia fare baldoria come lui, te lo
garantisco».
Mi spinse verso l’uomo seduto nella seconda poltrona. Era giovane, e mentre
mi avvicinavo accese con un gran tiro un cilum pieno di hashish, facendo
sfolgorare la brace. La fiamma dei fiammiferi tenuti dal terzo uomo, risucchiata
dalla pipa, produsse un’improvvisa vampata nel fornello, e il bagliore sfavillò
sopra la testa del ragazzo.
«Bom shankar!» esclamò Vikram allungandosi per prendere la pipa. «Lin, ti
presento Navin. È un investigatore privato. Sì, dico sul serio. Navin, lui è Lin, il
tizio di cui ti ho parlato, il dottore dello slum».
Il ragazzo si alzò per stringermi la mano.
«Be’, ecco...» disse con un sorriso ironico «non sono un vero investigatore,
almeno per ora».
«Non cè problema» risposi sorridendo a mia volta. «Io non sono un vero
dottore, e non lo sarò mai».
Il terzo uomo, quello che aveva fatto accendere il cilum, diede un tiro e mi
offrì la pipa. Rifiutai con un sorriso, e lui la passò a uno degli uomini sul letto.
«Io sono Vinson» disse dandomi la mano. La stretta mi fece pensare a un
cucciolo grosso e felice. «Stuart Vinson. Ehi, ho sentito molto parlare di te,
amico».
«Non c’è stronzo che non abbia sentito parlare di Lin» commentò
Concannon accettando la pipa offertagli da uno degli uomini sul letto. «Vikram
non fa che cianciare di te, sembra una groupie del cazzo. Lin qua, Lin là, quel
cazzo di Lin... A proposito, Vikram, non gli hai ancora succhiato l'uccello? Ci sa
davvero fare o sono solo chiacchiere?»
«Cristo, Concannon!» sbottò Vinson.
«Be’?» chiese Concannon spalancando gli occhi. «Che c’è? Gli ho solo fatto
una domanda. L’India è ancora un paese libero, no? Almeno nei posti dove si
parla inglese».
«Non badargli» mi disse Vinson stringendosi nelle spalle con aria di scusa.
«E una specie di malattia, non può farci niente. Uno stronzo tourettico».
Stuart Vinson era americano. Il fisico massiccio, i lineamenti ampi e marcati
e la folta zazzera di capelli biondi scompigliati dal vento gli davano un’aria da
lupo di mare, da navigatore solitario. In realtà era uno spacciatore, e faceva bene
il suo mestiere. Avevo sentito parlare di lui, proprio come lui aveva sentito
parlare di me.
«Lui è Jamal» proseguì Vikram senza curarsi di Vinson e Concannon,
presentandomi l’uomo accovacciato alla sinistra del letto. «Importa, raffina, rolla
e fuma. E un One Man Show».
«One Man Show» confermò Jamal.
Magro, occhi da camaleonte, ricoperto di amuleti religiosi. Cominciai a
contarli, ipnotizzato da quello sfoggio di santità; riuscii a distinguere cinque fedi
principali, prima che il mio sguardo si perdesse nel suo sorriso.
«One Man Show» dissi.
«One Man Show» ripete.
«One Man Show» insistetti.
«One Man Show» ribadì.
Avrei voluto continuare, ma sapevo che Vikram me l’avrebbe impedito.
«Lui è Billy Bhasu» disse Vikram facendo un cenno verso l’uomo piccolo,
esile e dalla pelle color crema seduto sull’altro lato della figura immobile. Billy
Bhasu unì i palmi per salutarmi, e riprese a pulire un cilum.
«Billy Bhasu è un portatore» annunciò Vikram. «Ti porta tutto quello che
vuoi. Tutto di tutto, da una ragazza a un gelato. Mettilo alla prova, è vero. Digli
di andarti a prendere un gelato, te lo porta subito. Forza, chiediglielo!»
«Non voglio...»
«Billy, vai a prendere un gelato per Lin».
«Subito» rispose Billy Bhasu posando il cilum.
«No, Billy» dissi alzando il palmo della mano. «Non voglio il gelato».
«Ma se ti piace tanto!» insistette Vikram.
«Non tanto da mandare qualcuno a prenderlo al posto mio, Vikram. Siediti,
amico».
«Se deve proprio portare qualcosa» intervenne Concannon dall’ombra, «voto
per il gelato e la ragazza. Anzi, due ragazze. E senza perdere tempo, cazzo».
«Sentito, Billy?» disse Vikram.
Si avvicinò a Billy e cominciò a trascinarlo via dal letto: il gelato, il gelato, il
gelato... poi una voce profonda e risonante vibrò dalla figura distesa, e Vikram
rimase pietrificato, come davanti alla canna di una pistola.
«Vikram. Mi rovini lo sballo, amico».
«Merda! Oh, merda... merda! Scusami, Dennis» balbettò Vikram. «E che
stavo presentando Lin ai ragazzi, e...»
«Lin» disse l’uomo sdraiato sul letto; aprì le palpebre e mi fissò.
Occhi grigi, incredibilmente chiari, una radiosità vellutata.
«Sono Dennis. Felice di conoscerti. Fa come se fossi a casa tua».
Dennis sollevò debolmente un’ala d’uccello, mi avvicinai per stringerla e
ritornai ai piedi del letto. Dennis mi seguì con lo sguardo, le labbra piegate in un
gentile sorriso di benedizione.
«Santo cielo!» mormorò Vikram mettendosi di fianco a me. «Dennis, amico!
E bello averti di nuovo fra noi! Allora, com’era dall’altra parte?»
«Tranquillo» salmodiò Dennis senza smettere di sorridermi. «Molto
tranquillo, fino a poco fa».
Si unirono a noi Concannon e Navin, il giovane investigatore. Tutti fissavano
Dennis.
«Lin, è un grande onore» disse Vikram. «Dennis ti sta guardando».
Seguì un breve silenzio. Concannon lo interruppe.
«Sì, certo, che bellezza!» ringhiò mostrando i denti in un sorriso. «Sono
rimasto qui per sei mesi del cazzo a elargirti il mio umorismo e la mia saggezza,
a fumare la tua roba e a bere il tuo whisky, e hai aperto gli occhi due volte in
tutto. Entra Lin e... cazzo, lo fissi come se stesse prendendo fuoco. Dimmi,
Dennis, sono proprio un coglione totale?»
«Già. Totale, amico» disse Vinson a bassa voce.
Concannon scoppiò a ridere.
Dennis fece una smorfia e sussurrò: «Concannon, ti voglio bene come a un
simpatico fantasma, ma mi stai rovinando lo sballo».
«Scusa, Dennis, amico mio» disse Concannon con un sogghigno.
«Lin» mormorò Dennis mantenendo testa e corpo perfettamente immobili.
«Ti prego, non voglio essere scortese. Ora devo riposare gli occhi. Lieto di averti
conosciuto».
Girò la testa di un grado verso Vikram.
«Vikram» mormorò con il suo tono cupo e rimbombante da basso. «Per
favore, controllati. Mi rovini lo sballo, amico. Ti sarei grato se la smettessi».
«Certo, Dennis, scusa».
«Billy Bhasu?» sussurrò Dennis.
«Sì, Dennis?»
«Fanculo il gelato».
«Fanculo il gelato, Dennis?»
«Fanculo il gelato. Per oggi niente».
«Sì, Dennis».
«Siamo intesi sul gelato?»
«Fanculo il gelato, Dennis».
«Non voglio più sentire la parola gelato per almeno tre mesi».
«Sì, Dennis».
«Bene. Dunque, Jamal, per favore, preparami un altro cilum. Grande, forte.
Un cilum gigante. Leggendario. Sarebbe un gesto di compassione, quasi un
miracolo. Tanti saluti, arrivederci a tutti.
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