Lettere – Lorenzo Milani

SINTESI DEL LIBRO:
Don Lorenzo Milani è un innovatore, diremmo un rivoluzionario
se oggi il termine non si prestasse a equivoci.
Ma come definire altrimenti un maestro che insegni a pensare,
quand’è più facile avere allievi indottrinati e acquiescenti? Non a
caso egli aveva aperto ai suoi scolari, figli di analfabeti, l’Apologia di
Socrate.
I temi principali della sua lezione umana e cristiana, sia per come
è vissuto sia per come ha saputo morire, sono noti.
Talvolta, però, ci colpiscono più le tappe che l’insieme
dell’itinerario: la difesa dei poveri, la scuola, il primato della
coscienza altro non sono, infatti, che punti che egli ha toccato in
vista di un traguardo finale più alto: A me non importa nulla che i
poveri ci guadagnino (questo fatto non ha infatti nessun peso per la
venuta del Regno), mi importa solo che gli uomini smettano di
peccare.
E l’ingiustizia sociale non è cattiva (per un prete) perché
danneggia i poveri, ma “perché è peccato” cioè “offende Dio” e
ritarda il suo Regno (E’ la ricchezza e non la povertà che è un’offesa
a Dio) (1).
Questa, con gli incisi e le sottolineature, è la minuta di una lettera
pubblicata tra le 127 che costituiscono il presente volume.
Se il lettore le segue con l’attenzione che meritano, capirà meglio
le molte sfaccettature di un prete che fu scarsamente capito e molto
combattuto, di un maestro che precorse i tempi, di un uomo che
seppe essere uomo.
Oggi, quel che ci rimane di Lorenzo Milani si trova nei suoi scritti
e, in particolare, proprio nelle lettere.
La sua principale forma di espressione, a parte l’opera educativa
diretta nella scuola popolare di San Donato di Calenzano e nella
minuscola frazione di Barbiana, è infatti quella epistolare.
Amava scrivere lettere, perché probabilmente, e nonostante le
apparenze, per sua natura amava il dialogo: non si scrivono lettere
come le sue, se non per domandare e per rispondere.
La disposizione all’apertura e al colloquio gli fu d’aiuto nello stato
di isolamento in cui venne a trovarsi per quasi metà della sua vita:
dal 1947, quando fu ordinato sacerdote, al 1967, quando è morto
sapendo da oltre cinque anni che non aveva più scampo (2).
Vent’anni di isolamento su quarantaquattro, nessuno può dire
che siano pochi.
Questa sorta di confino è stata certamente un fattore assai
importante.
Il suo popolo è sempre stato numericamente modesto, tanto nella
parrocchia di San Donato quanto, soprattutto, in quella di Barbiana:
11 famiglie, 44 anime, scriveva nel 1963; ma giunse anche ad
averne di meno.
La sua parola era rivolta a poche decine di allievi, anzi, nell’ultimo
decennio, a poche unità.
Ma, non scherzosamente, scriveva che, se era disposto a
scioperare da parroco, mai l’avrebbe fatto da maestro.
“Esperienze pastorali”, l’unico libro da lui firmato e intorno al
quale aveva lavorato per dieci anni, fu messo al bando dalle autorità
ecclesiastiche pochi mesi dopo essere uscito: gli veniva tolta proprio
quella parola in cui riponeva tanta fiducia.
Non aveva nessuno con cui parlare, non poteva scrivere; in
qualche occasione ai sacerdoti fu perfino consigliato di non andarlo
a trovare.
Per questo, dalla sua cittadella assediata - cittadella della fede e
dell’onore sacerdotale, due elementi, non dimentichiamolo, che egli
metterà sempre davanti a sé - egli aveva il prepotente bisogno di
comunicare con l’esterno, di dare e avere.
Nonostante tutto e nonostante le accuse, fu sempre
obbedientissimo.
Diceva: La mia carissima moglie Chiesa, che amo tra infiniti litigi
e contrasti… (3).
Se gli fosse stata tolta anche la parrocchia di Barbiana egli,
disse, sarebbe entrato in clausura.
Nessuno avrebbe potuto togliergli di colloquiare con Dio.
Le lettere sono una basilare testimonianza del suo valore, o
meglio dei vari aspetti del suo valore.
Sono in pessime condizioni confidava a un amico Non solo sono
a letto da un anno, ma da mesi sono disteso orizzontale e
dormicchiante.
Stamani colgo un raro momento in cui riesco a star su per
scriverti… (4).
Sarebbe morto il mese successivo, eppure affrontava l’ultima
fatica non per sé, ma per suscitare interesse intorno ai suoi ragazzi e
alla “Lettera a una professoressa”, che stava per uscire firmata
appunto dalla Scuola di Barbiana.
Fin dal titolo questo libro, fondamentale per capire psicologia e
pedagogia milaniane, denuncia il desiderio di dialogo, di
estrinsecazione di sé di un sacerdote eccezionalmente dotato, ma
anche crudelmente emarginato dalla società civile e religiosa.
Il senso della solitudine appare drammaticamente in alcune righe
del suo testamento spirituale indirizzate ai ragazzi del Mugello: Ho
voluto più bene a voi che a Dio.
E’ una frase terribile, appena temperata dalla seguente: ma ho
speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze, ma abbia
scritto tutto sul suo conto.
Chiameremo in causa Mauriac o Bernanos? No, don Milani non è
personaggio da romanzo, per quanto alta possa essere l’ispirazione
di un romanziere; è un uomo concreto della nostra storia.
Di una storia che, ingiustamente, ci si ostina a credere minore,
perché non compare nelle antologie, lontana com’è da trionfi di
generali e primi ministri, da dittature e sanguinose rivoluzioni.
In “L’obbedienza non è più una virtù”, altro titolo che ha fatto
tanto discutere, si ha una nuova prova della propensione di don
Milani allo stile epistolare.
Qui si trovano, insieme con i documenti del processo intentatogli
per la pubblica difesa dell’obiezione di coscienza, due testi in forma
di lettera: Risposta ai cappellani militari e Lettera ai giudici.
Anche in “Esperienze pastorali”, tra note e statistiche, appaiono
riflessioni importanti, sotto titoli come Lettera a un predicatore,
Lettera dall’oltretomba, Lettera a don Piero…
Perfino la dedica è, nella sostanza, una lettera indirizzata a futuri
possibili missionari cinesi giunti in Occidente a meditare sulle rovine
materiali e morali della chiesa di San Donato.
C’è di più.
Uno dei rari articoli di don Milani apparsi sui giornali è intitolato
Lettera dalla montagna (5); un altro, pubblicato dal periodico
mazzolariano “Adesso” (6), risulta in pratica una lettera indirizzata a
un giovane che si era allontanato dalla Chiesa.
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