L’importanza di essere sposata – Thomas Pynchon

SINTESI DEL LIBRO:
Un pomeriggio d'estate Mrs Oedipa Maas, rincasando da un
party Tupperware in cui la padrona aveva messo forse un po' troppo
kirsch nella fonduta, scoprì che lei, Oedipa, era stata nominata
esecutore o – meglio, a suo parere – esecutrice testamentaria di un
certo Pierce Inverarity, un magnate immobiliare californiano che una
volta nel tempo libero aveva perso due milioni di dollari, ma
possedeva ancora beni in quantità, e abbastanza aggrovigliati da
renderne l'inventariazione tutt'altro che una passeggiata. Oedipa
restò lì nel soggiorno, in piedi, fissata dal verdognolo occhio morto
del televisore, nominò il nome di Dio, si sforzò di sentirsi più ubriaca
che poteva. Ma non funzionò. Pensò ad una stanza d’albergo a
Mazatlàn la cui porta era appena stata sbattuta, a occhio e croce per
sempre, risvegliando duecento uccelli nell’atrio; a un'alba in cima
alla salita della biblioteca della Corneil University, che nessuno dal
posto poteva vedere perché il pendio guarda a ovest; a un motivo
secco e sconsolato del quarto movimento del Concerto per
Orchestra di Barték; a un bianco busto a calce di Jay Gouldche
Pierce teneva sopra il letto, su una mensola cosi angusta in
confronto al soprammobile, che lei aveva sempre avuto l’incombente
paura che prima o poi crollasse loro addosso. Era morto così?, si
domandò: fra i sogni, schiacciato dall’unica icona della casa? Il
pensiero la fece solo ridere, sonoramente e irresistibilmente. Sei
davvero malata, Oedipa, disse fra sé, o alla stanza, che lo sapeva.
La lettera veniva dallo studio legale Warpe, Wistfuil, Kubitschek &
McMingus di Los Angeles, ed era firmata da un certo Metzger.
Diceva che Piece era morto in primavera e avevano trovato il
testamento solo adesso. Metzger doveva fungere da coesecutore e
consigliere speciale in caso di controversie. Oedipa era stata
designata come esecutrice testamentaria in un codiculo datato a un
anno prima. Cercò di ricordare se in quel periodo fosse accaduto
qualcosa di insolito. Per il resto del pomeriggio, durante il suo giro al
supermercato del centro di Kinneret-Among-The-Pines per comprare
la ricotta e ascoltare la muzak (quel giorno aveva varcato la soglia
con tenda a perline sulla battuta 4 dell’edizione «artisti vari» del
Concerto per Kazoo di Vivaldi, solista Boyd Beaver); e poi durante
l'assolata raccolta di maggiorana e basilico dolce nell’orto, la lettura
delle recensioni dei libri nell’ultimo numero di «Scientific American»,
l’allestimento a strati delle lasagne, l’agliazione del pane, lo
sminuzzamento delle foglie di lattuga romana e infine, a forno
acceso, la mescolatura dei whiskey sours crepuscolari in vista del
ritorno dal lavoro di suo marito Wendell («Mucho») Maas, si
interrogò, si interrogò, rimischiando un pigro mazzo di giorni che
sembravano (non sarebbe stata la prima ad ammetterlo?) più o
meno tutti uguali o volti nella stessa direzione, sottilmente, come il
mazzo di un prestigiatore, con qualsiasi esemplare atipico da subito
evidente all’occhio esperto. Ci mise fino a metà del notiziario dì
Huntley e Brinkley per ricordare che l’anno prima, verso le tre del
mattino, era arrivata quell’interurbana, non avrebbe mai saputo da
dove (a meno che lui avesse lasciato un diario), con una voce che
aveva esordito in forte accento slavo, presentandosi come il vicesegretario del Consolato Transilvano alla ricerca di un pipistrello
fuggitivo; quindi rimodulandosi in negro-comico, e in un astioso
vernacolo pachuco infarcito di chingas e maricones; poi nelle strida
di un ufficiale della Gestapo che le chiedeva se aveva parenti in
Germania, e finalmente nella sua voce alla Lamorit Cranston, che
aveva sempre usato nel viaggio fino a Mazatlén —, Pierce, ti prego.,.
— era riuscita a interromperlo, — credevo che fra noi…
Ma Margo… — tutto serio, — sono appena stato dal
Commissario Weston, e quel vecchio nel tunnel dell’orrore è stato
ucciso dalla stessa cerbottana che ha stecchito il professor
Quackenbush… — o roba del genere.
— Dio santo, — disse Oedipa. Mucho si era voltato e la stava
guardando.
— Perché non riappendi e la fai finita? — le suggerì
assennatamente Mucho.
— Ho sentito tutto, — fece Pierce —. Credo sia ora che Wendell
Maas riceva una visitina dall’Ombra —.
Piombò il silenzio, inoppugnabile e completo. E fu l’ultima volta
che Oedipa sentì le sue voci. Lamont Cranston. Quella linea
telefonica avrebbe potuto rivolgersi in qualunque direzione, avere
qualunque lunghezza. La sua quieta ambiguità si trasferì, nei mesi
seguenti, su quello che era stato resuscitato: ricordi della faccia di
lui, del suo corpo, delle cose che le aveva dato, di quelle che ogni
tanto Oedipa aveva finto di non avergli sentito dire. Lo portò via, e
sull’orlo dell’oblio. L'ombra attese un anno prima di andarla a
trovare. Ma adesso c'era la lettera di Metzger. Forse Pierce l’anno
precedente aveva telefonato per parlarle di questo codicillo? O lo
aveva deciso più tardi, anche a causa del disappunto di lei e
dell’indifferenza di Mucho? Oedipa si sentiva smascherata,
ingannata, umiliata. In vita sua non aveva mai eseguito un
testamento, non sapeva da dove cominciare e non sapeva come
dire allo studio legale di L.A. che non sapeva da dove cominciare.
— Mucho, amore, — gridò, in un accesso di disperazione.
Mucho Mass, rincasato, entrò di slancio dalla porta a battenti, —
Oggi è stata un’altra batosta, — cominciò.
— Lascia che te lo dica, — cominciò anche lei. Ma lasciò a
Mucho di partire per primo.
Mucho faceva il disc-jockey in un altro punto della Penisola, e la
sua professione gli provocava ricorrenti crisi di coscienza. — Non ci
credo neanche un po’, Oed, — sbottava abitualmente. — Ci provo,
ma davvero non riesco, — essendo veramente giù, forse più giù di
dove lei potesse arrivare, sicché spesso questi momenti le facevano
rasentare il panico. Forse, anzi, fu la vista di Oedipa così vicina a
perdere il controllo, che sembrò farlo ritornare a galla.
— Tu sei troppo sensibile —. Ecco: c’erano tante altre cose che
anche lei avrebbe dovuto dire, ma fu questa che usci. E comunque
era vero. Per un paio d’anni Mucho aveva venduto auto di seconda
mano, ed era stato cosi iperconsapevole di quanto ormai significava
quella professione, che le ore lavorative per lui erano una raffinata
tortura. Ogni mattina Mucho si radeva il labbro superiore.- si faceva
tre peli e altrettanti contropeli, per eliminare anche il più remoto
sentore di baffi, lamette nuove e immancabili sanguinamenti, ma lui
duro; comprava solo abiti senza spalle imbottite, poi andava dal
sarto per farsi stringere i risvolti in modo ancora più anomalo, sui
capelli usava solamente acqua pettinandoseli alla Jack Lemmon
perché gli dessero ancor meno impiccio. La vista della segatura —
perfino dei trucioli di matita — lo faceva sussultare, poiché la sua
categoria se ne serviva notoriamente per silenziare le cinghie di
trasmissione difettose, e anche se stava a dieta non riusciva a
dolcificare il caffè come Oedipa con il miele, in quanto lo angosciava
al pari di tutte le cose viscose, ricordandogli troppo brutalmente
quello che spesso viene mescolato all’olio del motore affinché coli
surrettiziamente negli interstizi tra il pistone e la camicia del cilindro.
Una sera se ne andò da una festa perché aveva sentito qualcuno
usare la parola creampuff, secondo lui con malizia. L’uomo era un
pasticciere ungherese in esilio, e probabilmente ignorava che la
parola non vuoi dire soltanto «bignè», ma anche «vecchia carriola».
Ma almeno nelle macchine ci aveva creduto. Forse troppo: e per
forza, dato che vedeva entrare gente più povera di lui, negri,
messicani o anche bianchi, una parata sette giorni su sette, a «dar
dentro» le più oscene baracche: estensioni motorizzate, metalliche
di loro, delle loro famiglie e di quello a cui dovevano assomigliare le
loro intere vite: li esposte, cosi nude, agli sguardi di chiunque, anche
di un estraneo come lui: la carrozzeria sbilenca, il telaio mangiato
dalla ruggine, il parafango riverniciato in una tonalità sballata di quel
tanto da deprimere il valore e a volte Mucho stesso, gli interni
disperatamente tanfosi di bambini, di alcolici da supermarket, di due
o financo tre generazioni di fumatori, o soltanto di polvere — e
quando le auto venivano rimesse in ordine dovevi tener d’occhio il
vero avanzo delle loro vite, e vai a capire quali cose erano state
veramente respinte (quando secondo lui si disponeva di cosi poco
che per paura si doveva prendere e tenere quasi tutto) e quali
semplicemente (tragicamente, forse) erano state perdute: tagliandi
che promettevano sconti di 5 o 10 cent, bollini premio, volantini rosa
reclamizzanti offerte speciali del supermarket, mozziconi, pettini
sdentati, annunci cercasi-aiutante, Pagine Gialle strappate da un
elenco telefonico, cenci di vecchia biancheria intima o di vestiti che
erano già costumi d’epoca, con funzione di sfregar via il tuo fiato
dall’interno di un parabrezza e vedere quel che c’era da vedere, un
film, una donna o un’automobile che ti piaceva tanto, un poliziotto
che ti fermava solo per routine, tutti i pezzi e bocconi uniformemente
ricoperti, come un’insalata di disperazione, da un condimento grigio
di cenere, condensa di scappamenti, polvere, scarti corporei —
guardare lo nauseava, ma doveva farlo. Fosse stato uno
sfasciacarrozze vero e proprio, probabilmente avrebbe perseverato
e fatto carriera: essendo la violenza alla base di ogni incidente
abbastanza rara, abbastanza lontana da lui,per essere miracolosa
come lo è ogni morte fino al momento della nostra. Ma i riti
interminabili di ritirare l’usato, una settimana dopo l’altra, non
giungevano mai alla violenza e al sangue, e questo li rendeva troppo
plausibili perché l’impressionabile Mucho li incamerasse a lungo.
Anche se un’adeguata esposizione alla perenne nausea grigia era
servita in parte a immunizzarlo, non poteva mai accettare il modo in
cui ogni proprietario,ogni ombra, si presentava per scambiare una
versione di sé ammaccata e guasta con una simile, e altrettanto
senza futuro, proiezione semovente della vita di un altro. Quasi
fosse la cosa più naturale del mondo. Per Mucho era tremendo. Un
incesto contorto, senza fine.
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