L’essenza del Tutto – Debora Ferraiuolo

SINTESI DEL LIBRO:
Le orbite dei miei occhi si riflettono in quella pozza marrone scuro.
I ciuffi di vapore si arricciano attorno al viso, inumidendo l’incarnato
ancora abbronzato.
Nella mia mente, come un continuo promemoria, si palesano gli
impegni della giornata. L’agenda tenuta aperta sul tavolo da una
stilo, che riporta il brand dell’agenzia immobiliare per cui collaboro,
ne è la testimonianza.
Di questo passo, stasera avrò appena le forze per una cena
veloce e un cartone alla tv con la mia bambina, mentre bevo una
tisana rilassante.
«Aurora?».
Il tonfo sordo di un battito di mani richiama la mia attenzione.
Sussulto, e sbattendo le palpebre più di una volta, alzo lo sguardo
sulla ragazza seduta sul divanetto di fronte.
«Terra chiama Aurora. Ci sei?».
Annuisco distrattamente, stringendo con una mano il cartone
caldo, mentre ingollo una lunga sorsata di caffè, vitale per infondermi
la carica giusta per affrontare questa giornata.
«Sì, ci sono. Mi ero solo smarrita fra i miei pensieri» biascico,
impugnando la forchetta abbandonata su un tovagliolo piegato in
due. La indirizzo verso uno dei tanti riccioli di crepes e nutella in
sosta su un piatto di porcellana bianca posizionato davanti alla mia
bambina golosa. Ne infilzo uno, e strizzandole l’occhio, l’addento con
voracità.
Rebecca, seduta a pochi centimetri di distanza, col volto
imbrattato di zucchero a velo, incurva le labbra sporche di cioccolata
verso l’alto e mi mostra una dolce fossetta.
I suoi occhi, raggrinziti ai lati, sono un cielo pulito e privo di nuvole.
«Pensavi alla festa?».
Elise, con la bocca piena di muffin ai mirtilli, richiama nuovamente
la mia attenzione.
«Pensavo agli impegni della giornata» rispondo distrattamente.
«A-aspetta, quale festa?».
«Quella del marito di Leah» chiarisce, sputacchiando a destra e
manca briciole di pan di spagna e pezzi di frutti rossi. «La festa di
compleanno. Non dirmi che l’hai dimenticato…».
Mi batto uno schiaffo sulla fronte così forte da rischiare di
cambiare i connotati ai miei stessi pensieri.
«L’hai dimenticato!».
Annuisco, scivolando contro la spalliera in pelle del Chocolate.
«Sì che l’ho dimenticato, cazzo!» impreco, mordendomi la lingua
un istante dopo.
Il linguaggio, dannazione.
«Non far caso a quello che dice la mamma, okay piccola?» avviso
mia figlia, accarezzandole amorevolmente la testa dorata. I suoi
capelli culminano in ricci definiti sulle sue piccole spalle.
Fa spallucce, e dondolando le gambe scoperte dalla gonnella
glicine che indossa ritorna a mangiare tranquilla.
«Non posso andarci» bisbiglio, spostando lo sguardo dalla
bambina a Elise.
«Devi andarci» ribatte lei, accompagna le parole col rumore sordo
della tazza sbattuta contro il tavolo.
«Non è il caso, Elise. È passato del tempo e i miei non possono
tenermi Rebecca».
«Invece è proprio l’occasione perfetta per recuperare il tempo
perso» insiste, rubando un pezzo di crepes dalla colazione poco
salutare di mia figlia.
Elise è un pozzo senza fondo, e non si direbbe vedendola.
Ho avuto la fortuna di conoscerla grazie al mio lavoro di interior
designer.
Elise Wilson, un anno e otto mesi fa, era solo la sorella dell’uomo
che la House&Love aveva deciso di affiancarmi al posto di Robert
Reynolds. Era solo una ragazza in cerca di una casa che la
rendesse indipendente, e di un’arredatrice d’interni che l’arredasse.
E così ci siamo incontrate, conosciute, e mai più separate.
Probabilmente Elise è stata l’unica nota positiva in un intero
periodo stonato. L’unico tocco di bianco su un intonaco
completamente nero.
«E ti terrò io Becky» addenta un secondo boccone e guarda la mia
bambina. «Ci divertiremo come matte, vero piccola?».
«Sììì!» esulta con la bocca piena lei.
Sospiro e abbasso le spalle rassegnata.
Non ho una scusa plausibile per evitare di andare a una festa dai
Morris.
Altro che riposo e serata in casa con la bambina. Questa sera mi
toccherà mettermi in tiro, impiantarmi un sorriso sulle labbra e
tollerare un invito sgradevole.
«Va bene. Andrò alla festa» borbotto, buttando giù l’ultimo goccio
di caffè, ormai freddo.
Elise mostra un gesto di vittoria e batte il cinque a mia figlia.
«Poche storie» dico, stemperando il suo entusiasmo. Pulisco il
volto di Rebecca, recupero dal tavolo l’agenda, la penna e le monete
di resto, e ficco tutto in borsa. «È ora di andare all’asilo, amore della
mamma», e così dicendo prendo in braccio mia figlia, do un bacio al
volo a colei che ora è la mia migliore amica e scappo via, all’insegna
di una nuova giornata.
***
«Piccola!».
«Ehi».
Il suono chiaro della sua voce mi colpisce dopo il primo squillo,
rimbombando nei miei timpani. Sono sulla 187esima Street Avenue
in attesa della coppia che, dopo mesi, vedrà il lavoro finale svolto
nella loro casa.
«Cosa succede?».
Gioco nervosamente con una ciocca di capelli,
sorprendentemente troppo corta rispetto al passato. Solo poco più di
un anno fa, avevo deciso di dare un taglio netto praticamente a tutto.
Fra l’accozzaglia di cose che messe insieme costituivano la mia vita,
i capelli erano stati l’elemento che aveva subito il torto minore.
«Ti ricordi della festa di stasera?» gracchio quasi afona.
«Sì, certo. La festa di Matt, giusto?».
«Sì» sussurro appena.
Cerco dal fondo della gola una voce che trova difficoltà a uscire. Il
mio interlocutore dovrà lanciarmi una ciambella di salvataggio se
non vuole che la conversazione diventi un monologo senza senso.
«A che ora vuoi che ti passi a prendere?».
Come se mi avesse appena letto nella mente, mi salva in extremis
da una richiesta scomoda.
«Alle otto e trenta andrà più che bene».
Faccio un rapido conto mentale, arrivando alla conclusione che
licenziandomi dall’ultimo impegno lavorativo avrò giusto un’ora di
tempo per fare una doccia, scegliere un abito decente e camuffare le
mie occhiaie.
«Perfetto. Alle otto e trenta sarò da te» attesta entusiasta.
«Bene. Ora devo lasciarti». Vedo la coppia avvicinarsi
progressivamente. «A stasera».
«A stasera, piccola».
Stacco appena in tempo, prima che quel soprannome porti brividi
incontrollati a farmi sudare freddo; punto lo sguardo sui ragazzi
sempre più vicini e lascio che quei volti felici, quegli sguardi folli e
quei cuori pieni d’amore portino alla mia mente ricordi ancora troppo
dolorosi.
«Facciamo l’amore qui».
«Cosa?!».
Sgrano gli occhi, riflettendo i suoi nei miei.
Daniel ride sommesso. Si meraviglia ancora di come, dopo tempo,
riesca a farmi restare inebetita dalle sue richieste impertinenti.
Siamo in una casa, vecchia e diroccata. Una delle case che devo
mettere in sesto per una giovane coppia di promessi sposi.
«Facciamolo qui, Aurora» ripete, con un tono di voce calmo e
lento, mentre al mio interno ogni organo è sul punto di esplodere.
«Tu sei matto, Daniel» affermo. Sfuggo alle sue grinfie e alla
stretta delle sue braccia forti. «Non possiamo farlo qui».
«Perché? Aurora Myers, dammi un dannato motivo per cui non
dovrei scoparti qui. Ora e subito».
Sorrido, un po’ per il modo in cui ha usato il mio cognome da
donna sposata per rimarcare quanto io gli appartenga, un po’ per
come lui, nonostante il tempo che passa e gli anni che avanzano, sia
sempre e comunque quel dannato bastardo che mi ha rubato il
cuore.
«Primo» indico il pollice della mano sinistra con quello sguardo di
sfida che da sempre mi rende la sua nemica numero uno, «perché
sono sul luogo di lavoro. Secondo perché questa casa non è nostra
e terzo…» abbasso la voce, «non abbiamo un letto».
Daniel sogghigna e scrolla divertito la testa. «Il letto è il problema
minore, amore» stabilisce raggiungendomi con un’unica falcata. Mi
rinchiude nella presa salda e familiare delle sue braccia. «C’è un
tavolo e ce lo faremo bastare» aggiunge, allunga lo sguardo oltre le
mie spalle e adocchia in lontananza una piccola tavola in legno,
consumata ma abbastanza resistente.
«Daniel!» strepito, assumendo in un secondo le più infinite tonalità
di rosso.
Lui ride, di nuovo, impregnando la stanza del suono della sua
risata.
Questo timbro, profondo e contagioso, è in grado di azzerarmi in
un attimo i pensieri e farmi innamorare di lui ogni volta come se
fosse la prima.
«Non fare la pudica, James» dice abbassandosi sulle ginocchia.
Poi mi carica sulle spalle senza sforzi. «Tanto ho già deciso. Ti
scoperò su quel tavolo, amore mio.
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