Le reliquie dei morti – Ariana Franklin

SINTESI DEL LIBRO:
E Dio era infuriato col Suo popolo delSomerset, così che nell'anno
del Signore 1154, nel giorno seguente la festa di santo Stefano, Egli
scatenò un terremoto per punirlo dei suoi peccati...» Così scrisse il
monaco Caradoc nella cappella di san Michele, in cima alla
Glastonbury Tor, l'altura sulla quale si era inerpicato ansimando e
singhiozzando per sfuggire alla devastazione che Dio con il Suo
terremoto aveva provocato su tutto ciò che si trovava al di sotto.
Da due giorni lui e i suoi confratelli vi avevano trovato rifugio e
non osavano scendere, perché ancora udivano le scosse di
assestamento che facevano tremare la loro abbazia e guardavano con
orrore le onde gigantesche che sommergevano i villaggi situati sulle
piccole isole disseminate negli acquitrini di Avalon.
Due giorni, e Caradoc era ancora fradicio e sentiva una fitta
dolorosa nel suo povero, vecchio petto. Quando il terremoto era
iniziato e i suoi confratelli erano usciti dall'abbazia vacillante per
fuggire sulla Tor, che era sempre stato il loro rifugio nei momenti di
pericolo, anche lui si era messo a correre, incalzato dalla voce di san
Dunstan, il più severo dei santi che, sebbene morto da
centosessantasei anni, gli ordinava di salvare il Libro di Glastonbury
prima di tutto. «Caradoc, Caradoc, fai il tuo dovere anche se il cielo
cade.» Ma erano i muri a cadere e a Caradoc era mancato il
coraggio di correre in biblioteca per prendere il grande libro
incastonato di pietre preziose; era pesante e non sarebbe mai riuscito
a portarlo in cima alla collina.
Già gli bastavano le tavolette di ardesia che teneva sempre
appese al cordiglio, un peso non trascurabile per un vecchio che si
era dovuto inerpicare sui centocinquanta metri di quella ripida
collina a forma di cono. Lo aveva aiutato suo nipote Rhys,
spingendolo, trascinandolo, gridandogli di affrettarsi, ma era stata
comunque una scalata terribile, veramente terribile.
A quel punto, al riparo nella cappella fredda ma asciutta e
ancora intatta che Giuseppe di Arimatea aveva costruito per
custodire le ampolle con il sacro sangue e il sudore di Cristo che
aveva portato dalla Terra Santa, fra Caradoc compì il suo dovere di
annalista dell'abbazia. Alla fioca luce di un cero, appoggiandosi con
riverenza sull'altare di san Michele, annotò col gesso sulle tavolette
di ardesia gli ultimi eventi della storia di Glastonbury per poterli
trascrivere in seguito sulla pergamena del Grande Libro.
«E la voce del Signore risuonò nelle grida degli uomini e nei
lamenti degli animali, mentre la terra tremava e si spalancava sotto
di loro, negli alberi che cadevano, nelle candele che si rovesciavano e
nel ruggito delle fiamme che divoravano le case.»
Il dolore al petto aumentava e l'ombra di san Dunstan
continuava a tormentarlo. «Il Libro deve essere salvato, Caradoc. La
storia di tutti i nostri santi non può andare perduta.» «Non sono
ancora arrivato all'onda, mio signore.
Lasciate almeno che ne faccia menzione.» E riprese a scrivere,
«In maniera ancor più forte, il Signore si fece udire nel frastuono di
un'onda che dalla baia si levò più alta di una cattedrale, e gonfiò i
fiumi in piena del Somerset Level, spazzando via i ponti e
sommergendo ogni cosa sulla sua strada. Grazie alla Sua
misericordia, l'onda ha raggiunto solo i tratti inferiori della nostra
abbazia, che è ancora in piedi, ma...» «Il Libro, Caradoc. Di' a quel
pigrone di tuo nipote di andare a prenderlo.» Fra Caradoc guardò i
suoi confratelli che giacevano rannicchiati sul pavimento del coro per
scaldarsi, qualcuno russava. «Dorme, signore.» «Quand'è che non
dorme?» domandò san Dunstan, non del tutto ingiustamente. «O
dorme o canta canzoni sconvenienti, quel ragazzo. Non diventerà
mai un monaco. Dagli un calcio e sveglialo.» Con delicatezza, fra
Caradoc toccò col piede un paio di giovani caviglie ossute. «Rhys,
Rhys, svegliati, novizio.» A suo modo era un bravo ragazzo, il
novizio Rhys, un magnifico tenore, ma san Dunstan aveva ragione,
preferiva i canti profani ai salmi, e per questo gli altri monaci lo
rimproveravano incessantemente e lo tenevano occupato per curare
la sua pigrizia. Esausto, il ragazzo grugnì e continuò a dormire:
"Bene, bene, lasciamolo dormire." Caradoc riprese a scrivere.
Non aveva ancora registrato che si era aperta una voragine nel
cimitero. Sì, doveva prenderne nota, perché allontanandosi di corsa
dai muri vacillanti, aveva visto spalancarsi una fenditura nel cimitero
dell'abbazia, tra le due piramidi che vi si ergevano da tempo
immemorabile. «Come se,» scrisse, «fosse arrivata la fine del mondo
e l'Onnipotente avesse suonato la Tromba del Giudizio per far
risorgere i morti dalle tombe.» «Il Libro, Caradoc» urlò san
Dunstan. «Vuoi lasciare i nostri annali in preda ai saccheggiatori?»
No, non poteva farlo. Fra Caradoc posò il gesso e. sebbene fosse
scosso da tremiti incontrollabili e il dolore nel petto lo trafiggesse
come una sbarra di ferro, uscì dalla cappella e scese barcollando il
sentiero serpeggiante della Tor. Sapeva che la tromba aveva suonato
per lui, e anche se fosse riuscito a salvare il Libro sarebbe morto
durante l'impresa, o avrebbe esalato l'ultimo respiro nell'amata
abbazia che era stata la sua dimora.
Molto respiro prezioso gli costò l'arrivare in fondo,
inciampando nelle zolle e spaventando le pecore con i suoi gemiti,
ma la forza di gravità lo spinse fino al portone che, al suo tocco, si
spalancò sotto l'arco normanno istoriato. Proseguì a fatica fino
all'orto, dove crollò tra le lattughe di fra Peter, incapace di
proseguire.
Oltre il pendio scorgeva la sagoma torreggiante della chiesa.
Aveva subito dei danni; il vecchio campanile era crollato e negli
angoli si vedevano dei buchi. L'acqua che circondava i terreni
dell'abbazia non era arrivata fin lì; così, il Grande Libro e tutte le
reliquie dei santi erano ancora intatti. Più in là, però, il villaggio fuori
dalle mura era silenzioso e immobile; i pascoli erano punteggiati
dalle chiare carcasse delle pecore.
Caradoc si addolorò per le persone e gli animali annegati, per i
raccolti e i campi di grano rovinati; sarebbe stata un'estate dura per i
sopravvissuti, e un inverno ancora peggiore.
Tuttavia, la santa Glastonbury era ancora in piedi.
Bella, davvero bella, cristallina sotto la luna nuova che si
rifletteva su quella distesa d'acqua, un'isola di vetro.
L'Isola di Vetro.
Inspirando l'aria che non riusciva più a riempirgli i polmoni,
Caradoc volse gli occhi al cimitero che lo aspettava.
Un movimento catturò la sua attenzione. Tre figure
incappucciate tiravano con delle corde qualcosa su per il pendio che
saliva dall'ingresso principale dell'abbazia. Erano troppo lontane per
fare rumore, sembravano fantasmi. E forse, pensò Caradoc, lo erano
davvero.
Quale essere umano si sarebbe aggirato in mezzo a tutta quella
devastazione, quando persino i gufi e gli usignoli tacevano?
Non riusciva a capire cosa stessero trascinando; sembrava un
tronco o una canoa. Poi, quando le figure arrivarono al punto in cui il
terremoto aveva aperto la voragine, capì di cosa si trattava. Una bara.
La stavano calando nella fenditura. Si erano inginocchiati e
dalla gola di uno di loro si levò un forte urlo.
«Artù, Artù. Possa Dio aver pietà della tua anima e della mia.»
Un gemito uscì dal petto del monaco moribondo.
«Re Artù è morto, dunque?» Caradoc, benché monaco di
Glastonbury da trent'anni, credeva che Artù stesse solo riposando, in
attesa di essere chiamato a rialzarsi e combattere ancora una volta le
orde del demonio. Ed era quello il luogo in cui riposava.
Avalon era Glastonbury e Glastonbury era Avalon, l'Isola di
Vetro, e Artù dormiva da qualche parte in mezzo a quelle colline, tra
le grotte segrete e le sorgenti cristalline. Artù il coraggioso, Artù il
gallese, colui che aveva resistito agli invasori arrivati dal mare e
tenuto accesa la fiamma della cristianità in Britannia durante i secoli
bui.
Caradoc era stato felice di servire Dio nel luogo in cui era stato
portato Artù per guarire dalle ferite riportate nell'ultima grande
battaglia.
Era morto, dunque? Il valoroso Artù era morto?
La terra tremò ancora una volta, leggermente, come un cane che
si acciambella per dormire. Caradoc udì altre voci che chiamavano il
suo nome. Un braccio gli sostenne il capo e, come alzò gli occhi,
incontrò quelli spaventati del nipote.
«Guarda, novizio» disse Caradoc, sforzandosi di indicare.
«Stanno seppellendo re Artù. Tre dei suoi cavalieri incappucciati,
guarda.» «Non muoverti, zio» disse Rhys, e agli altri monaci che lo
cercavano sulla collina gridò: «L'ho trovato. Qui.
E qui».
«Là, figliolo» disse Caradoc. «Tra le piramidi, nella fenditura. Li
ho visti calare la bara; li ho sentiti piangerlo.» «Hai avuto una
visione?» domandò Rhys, guardando verso il cimitero e non vedendo
nulla.
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