Le regole del tè e dell’amore – Roberta Marasco

SINTESI DEL LIBRO:
L'ultimo sole del pomeriggio tingeva la parete della stanza di una luce
rosata e inafferrabile. Non appena raggiungeva il culmine del suo splendore
si ritirava, sprofondando ogni cosa nel buio. In quell'attimo però la luce era
perfetta, una nebbiolina rosa e dorata che faceva galleggiare gli oggetti
come se fossero privi di peso: il tavolino davanti alla finestra, il piccolo
taccuino di cuoio, i vestiti gettati sulla sedia.
La ragazza gli cercò la mano sotto il lenzuolo e quando l'ebbe trovata
intrecciò le dita alle sue e le strinse. Lui ricambiò la stretta, ma esitò un
istante, un istante impercettibile, l'ombra di un'indecisione che le sarebbe
sfuggita, se non fosse stata intenta a scrutare ogni suo gesto alla ricerca di
una risposta. Gli strinse di nuovo le dita, più forte.
«Mi mancherà la locanda» mormorò poi, guardando la vallata fuori dalla
finestra. «Nonostante tutto» aggiunse con un sorriso amaro.
Il ragazzo si voltò e in un gesto insolitamente deciso per lui, quasi brusco,
si sollevò e la trascinò a sé, inchiodandola sotto di lui, fra le sue braccia. «A
me mancherai tu» disse in un soffio, prima di posarle il viso sul petto.
Lei gli accarezzò la nuca, dolcemente. Ignorò il cuore che le batteva con
violenza nel petto, gli infilò le dita fra i capelli e lo sentì sospirare sopra di
lei.
«Sarà solo per poco» gli sussurrò all'orecchio, la voce che tremava
appena. «Sarà solo per poco, vero? Il tempo che ti serve per parlarle e
spiegarle come stanno le cose.»
Lui non rispose, scivolò giù da lei, disteso su un fianco, e rimasero in
silenzio per qualche istante. Da dove si trovavano, sul letto, il cielo era una
battaglia di luce e di colori infuocati, e lei lo percorse con lo sguardo finché
non diventò troppo bello per poterlo sopportare. Troppo intenso per non
assomigliare alla fine. Lo sentì sospirare di nuovo, il petto magro che si
alzava e poi abbassava di colpo. Il ragazzo si sollevò su un gomito e la
guardò, gli occhi scuri erano due pozzi di passione e di paura.
La attirò a sé con l'altro braccio e la baciò delicatamente sulla fronte, un
bacio sofferto, rapido. «Sei la cosa migliore che mi sia mai capitata» disse
con un filo di voce. «E anche la peggiore.»
Il sorriso le morì sulle labbra, ma lo fece rinascere, in qualche modo.
«Smettila di torturarti in questo modo» lo supplicò. «Abbiamo già deciso.
Lo so che hai deciso. E tu sai che saremo felici. Lo sai vero?»
Lui la guardò, poi si lasciò cadere di nuovo sul cuscino, senza parlare.
Lei si sollevò. «Non è per la maledizione, vero? Non ci crederai mica?»
«Mia madre…» iniziò lui, ma non terminò la frase.
«È solo una superstizione, una vecchia leggenda. Lo sanno tutti.»
Per un attimo la guardò come se non potesse capire, improvvisamente
distante, poi le sorrise con la tenerezza di sempre e le fece scorrere le dita
sulla guancia.
Lei lo osservò, accarezzandolo con gli occhi. Il profilo scolpito, il ciuffo
castano che gli ricadeva disordinato sulla fronte, la carnagione scura per le
ore trascorse al sole. Provò una fitta improvvisa al petto. Era così bello e
così diverso dal ragazzo che tutti credevano di conoscere. Ed era merito
suo, lo sapeva. Era stata lei a cancellargli quell'espressione seria e
concentrata dal viso, a insegnargli a sorridere con gli occhi, a socchiudere le
labbra carnose. Eppure aveva l'impressione che le stesse scivolando via.
Sempre più bello e sempre più inafferrabile, come la luce del tramonto che
entrava dalla finestra.
Dovevano andare via da lì, non ne era mai stata convinta come in quel
momento. Il borgo li stava soffocando, come aveva soffocato lui e la madre
per tutti quegli anni. Era un posto magnifico, ma non perdonava facilmente,
soprattutto chi non portava nel sangue l'eco delle sue pietre antiche. O
appartenevi a quei vicoli o non vi appartenevi, il borgo non tollerava le vie
di mezzo. Con lei forse avrebbe potuto fare un'eccezione. Per un attimo le
era sembrato di esserci arrivata molto vicina. Ma poi aveva rovinato tutto.
Gli sfiorò le labbra con un dito. «Non è così terribile come lo fai
sembrare. La vita non deve per forza essere difficile. Puoi godertela e basta,
senza chiederti in continuazione se stai facendo la cosa giusta.»
Lui la prese e la spostò sopra di sé, le strinse il viso fra le mani e la
guardò negli occhi con un tale amore e una tale tristezza che lei non riuscì a
reggere il suo sguardo e lo distolse. «Parto domattina» disse senza
guardarlo. «Ti farò avere l'indirizzo non appena avrò trovato un posto. Il
nostro posto. Ci sarà un grande giardino, te lo prometto, il giardino più bello
che avrai mai visto.» Posò la guancia sul suo petto. Sentì il cuore che
batteva, più rapido di quanto avrebbe mai lasciato intuire il suo viso calmo e
controllato. Si chiese se avrebbe avuto il privilegio di sentire quel battito
per tutta la vita o se avrebbe potuto soltanto cercarne l'eco nel proprio.
Lui le accarezzò i capelli lentamente. «Sei l'unica donna che abbia mai
amato. Non immaginavo neanche che si potesse amare in questo modo,
prima di conoscerti.»
Lei si tirò indietro di scatto. «Mi raggiungerai, vero?» chiese con una
nota strozzata nella voce. «Come abbiamo deciso.»
In quel momento sentirono alcuni passi che salivano di corsa le scale
della locanda. Lui si irrigidì e la mano scivolò via. I passi si avvicinarono
sempre di più.
La luce rosa era scomparsa e la stanza scivolava a poco a poco nel buio,
mentre l'ultima luce del giorno restava impigliata nel vestito giallo gettato a
terra.
«C'è qualcuno nella stanza accanto?» le chiese lui, la voce indurita dalla
tensione.
«No, sono ripartiti stamattina.» Esitò. «Forse hanno dimenticato
qualcosa?» disse, senza credere neanche lei che potesse essere davvero così.
I passi accelerarono, sempre più urgenti, e si fermarono sul pianerottolo.
Lei alzò gli occhi e quando incrociò il suo sguardo capì di che cosa erano
fatti davvero i suoi dubbi e le sue paure. Capì che facevano parte di lui. Che
erano fatti della stessa materia del suo amore per lei. Che l'uno non poteva
esistere senza gli altri. Si chiese se il desiderio di essere felice sarebbe stato
più forte. Se sarebbe mai bastato a convincerlo a tradire se stesso, quella
rete di regole e di divieti che si era imposto e che lo aveva protetto dal
mondo fino al giorno in cui era arrivata lei.
In quella frazione di secondo, prima che la porta si aprisse, pensò che il
desiderio di essere felici non sarebbe stato sufficiente, solo il bisogno di
essere felici avrebbe potuto salvarli. E neanche il loro amore forse poteva
arrivare a tanto.
Le regole del tè e dell'amore
Se la vita è come una tazza di tè, significa che qualcuno di noi è l'acqua e
qualcun altro il tè. Ci sono persone che sentono di poter cambiare ciò che
le circonda, che vogliono lasciare il segno, dare il proprio sapore alle cose.
Sono le persone che si tuf ano nella tazza, impavide e impazienti. Le
persone che si raccontano. Le persone tè. Poi ci sono le persone che
aspettano, che accolgono, che cambiano colore a seconda degli umori
altrui. Attendono, liquide e trasparenti, le foglioline di tè che daranno gusto
alla loro vita. Sono le persone che ascoltano. Le persone acqua.
Le persone acqua trovano che la vita sia più interessante quando sono gli
altri a colorarla; sono convinte che vivere con un solo colore, sempre lo
stesso, il proprio, sia noioso. Per quanto possa essere un colore magnifico.
Perché per sentire i profumi degli altri ogni tanto bisogna mettere a tacere
il proprio.
Ogni acqua però ha il suo residuo fisso. E quando è troppo alto, è inutile
cercare di nasconderlo o di lasciarsi invadere dal sapore altrui. Finisce
sempre per farsi sentire. Alcuni tè si ritirano indispettiti, qualcuno
addirittura cambia sapore e non lo riconosci neanche più, come il tè verde
Sencha Fukujyu, che con un'acqua troppo ricca di minerali diventa salato.
Il residuo fisso non si cambia, è per tutta la vita. E cercare di eliminarlo è
inutile.
Un giorno però arriverà un tè speciale, raccolto in un momento
particolare dell'anno, da una coltivazione a una quota ben precisa. E il
sapore di quel tè, soltanto il suo, per un insieme inspiegabile di circostanze,
come la quantità di pioggia caduta, l'umore delle raccoglitrici, qualche
giorno di essiccazione in più del previsto, invece di essere infastidito dal
residuo fisso ne sarà esaltato. E nascerà una bevanda dal sapore unico e
irripetibile. L'insostenibile pesantezza del residuo fisso ha i suoi vantaggi.
Basta saper aspettare.
Con le storie è lo stesso. Non basta saperle raccontare o saperle
ascoltare. Solo quando chi racconta sa fermarsi ad ascoltare e chi ascolta
si riconosce nel racconto la magia è completa. Perfetta, come una buona
tazza di tè.
2
KEEMUN MAO FENG
Tè nero cinese dolce e aromatico, dal sapore pieno e deciso, con un
sottile retrogusto di miele e di fiori, e una nota leggermente affumicata. È
uno dei tè più importanti della Cina ed è considerato uno dei più raffinati.
Al palato arrivano note speziate e di cioccolato, con un finale dolce e
piccante che lo rende inconfondibile.
Elisa versò l'acqua calda nella teiera di porcellana e ve la lasciò per
qualche istante, finché non fu tiepida. Quindi la svuotò e la posò sul
tavolino.
«Buon pomeriggio, signor Keemun» disse a bassa voce. «Oggi ho
bisogno del tuo profumo di orchidea» aggiunse, mentre lasciava cadere le
foglioline nere e sottili nella teiera.
Controllò la temperatura dell'acqua minerale che aveva messo a scaldare
e quando arrivò a novanta gradi la versò sopra le foglie di tè, che presero
vita con un fremito. Un istante dopo fu avvolta dall'aroma dolce e intenso
del pregiato tè nero.
«Come avremmo fatto» mormorò, mentre lo lasciava in infusione per tre
minuti, «se il signor Yu Ganchen non si fosse annoiato, in pensione, e non
gli fosse venuto in mente di creare un giardino del tè?»
Elisa girò la tazza, che teneva capovolta, come aveva sempre visto fare
alla madre. Da bambina era convinta che servisse a non lasciar sfuggire
l'anima del tè. Vi versò un poco dell'acqua calda rimasta, per intiepidirla, la
svuotò e infine si sedette e versò il liquido color nocciola.
Non appena se lo portò alle labbra, sentì che la tensione iniziava ad
allentarsi. Il tè aveva sempre il potere di far scomparire la solitudine. Le
note più dolci, di cacao e fiori, insieme a quel gusto che le ricordava il
sapore del bosco, la avvolsero in un abbraccio tiepido e sfuggente. Quel
giorno però l'inquietudine la rodeva dentro e neanche il tè riuscì a scacciarla
del tutto.
Sospirò, la tazza calda stretta fra le mani, e si voltò. E il giardino del tè
che aveva preso forma intorno a lei tremolò e svanì, davanti alle pile di
scatoloni che invadevano il suo monolocale. Per quanto avesse cercato di
ordinarle, avevano comunque l'aria di essere sul punto di crollare da un
momento all'altro. Come a ricordarle che non avrebbe potuto rimandare per
sempre.
Erano gli ultimi scatoloni in cui cercare. E anche gli unici che si era
portata a casa e che non era riuscita a organizzare, perché era troppo
affezionata a quel che contenevano. Aveva cacciato dentro tutto così in
fretta, nell'ansia di finire e non pensare a quello che stava facendo, che ora
non aveva idea di che cosa ci fosse all'interno. La storia della vita di sua zia,
di sua madre, e la sua stessa infanzia, affidate a qualche parola illeggibile
scarabocchiata in fretta con il pennarello nero.
Bevve un altro sorso di tè nero e infilò dietro l'orecchio una ciocca di
capelli castani che continuava a scivolarle sul viso. «Mi lascerai dormire?»
chiese a bassa voce rivolta alla tazza. «Forse ho fatto male a lasciarmi
ingannare dalle tue foglioline eleganti.» Il Keemun era perfetto a fine
giornata, ma solo se non avevi pensieri per la testa. E lei di pensieri ne
aveva fin troppi.
Tornò a guardare gli scatoloni. Doveva iniziare ad aprirli, prima che
qualcuno cadesse davvero per terra. E forse sarebbe stato più facile con
l'aroma delle orchidee e delle rose diffuso nell'aria.
Bevve un ultimo sorso e si avvicinò a uno degli scatoloni più vicini.
“Cucina.” Forse poteva cominciare da lì. Dalla zia e dalle sue torte.
Strappò lo scotch marrone, che si arrotolò e le si appiccicò alle dita, e
aprì lo scatolone. Non ricordava di aver messo dentro tutto tanto alla
rinfusa. All'interno vide un mazzo di cucchiai di legno di ogni forma e
dimensione, alcune spatole e i beccucci per la decorazione che la
affascinavano tanto da bambina. Il setaccio e il rullo per lo strudel che da
piccola faceva scorrere per tutta la casa, ridendo divertita, fra i sospiri
pazienti della zia.
Se lo portò al viso, chiuse gli occhi e, inspirando, le sembrò di risentire il
profumo del cacao che si scioglieva a bagnomaria, del burro, dei baffi di
farina che la zia le disegnava sul viso, ridendo. Sentì gli occhi bruciare e si
morse un labbro, per non piangere. Aveva lasciato che la zia invecchiasse
quasi senza rendersene conto, come se non volesse ammetterlo neanche con
se stessa. Aveva continuato ad aspettarsi di essere viziata e coccolata come
sempre, senza pensare che era arrivato il momento che fosse lei, a prendersi
cura della zia. Non si era neanche accorta che non stava bene, finché non
l'aveva chiamata dall'ospedale per avvisarla che l'avevano ricoverata. Solo
per qualche giorno, le aveva detto, vogliono solo fare qualche controllo. Ma
non era mai uscita.
Elisa non era riuscita neanche a salutarla, era questo a farle più male.
Quel pomeriggio aveva lasciato la stanza mentre la zia dormiva e l'aveva
vista così serena, che aveva deciso di non disturbarla. Perché svegliarla? Il
mattino dopo era sabato, quindi sarebbe stata lì di buon'ora e avrebbe potuto
fermarsi più a lungo. Non avrebbe mai immaginato di ricevere una
telefonata dell'ospedale alle undici di sera e che il mattino dopo avrebbe
potuto vedere solo il suo corpo, così estraneo che per una frazione di
secondo aveva pensato che si fossero sbagliati, che fosse un'altra persona,
prima di iniziare a dare disposizioni per il funerale. Era terribile, adesso,
non avere un ultimo istante a cui aggrapparsi, qualche parola di chiusura, un
gesto di intesa, qualunque cosa che servisse a catturare l'amore che avevano
condiviso per tanti anni e a rendere il distacco meno doloroso. Qualcosa che
le facesse sentire la zia ancora vicina, nonostante tutto. Che colmasse la
distanza che si era aperta fra loro nelle ultime settimane, o negli ultimi
mesi, senza che Elisa neanche se ne accorgesse.
Come aveva fatto a non capirlo? Lei e la zia si sentivano ogni giorno, non
si erano mai allontanate, o almeno lei era convinta di no. Ma la zia faceva
sempre finta che andasse tutto bene ed Elisa faceva sempre finta di crederci.
Ora che ci pensava, non ricordava neanche più quando era stata l'ultima
volta che aveva mangiato uno dei suoi dolci. Com'era possibile che non si
fosse accorta che la zia stava male al punto da non cucinare neanche più le
sue torte? Si sforzò di ricordare e le tornò in mente che forse l'ultima volta
era stata quasi un anno prima, il giorno del compleanno della madre.
Elisa strinse il rotolo per lo strudel fra le dita, come se potesse riportarle
tutto quello che aveva perduto. Tornò a prendere la tazza di Keemun e si
sedette a gambe incrociate per terra, fissando la montagna di scatoloni.
Bevve un sorso di tè e si voltò a guardare quello che aveva di fianco.
“Varie” c'era scritto a grandi lettere con il pennarello nero. Il cuore prese a
batterle più rapidamente nel petto. Forse lì avrebbe trovato quello che
cercava, se l'avesse ispezionato con calma.
Perché doveva esserci qualcosa, non era possibile che non ci fosse. Elisa
viveva con quel pozzo nero dentro fin da quando era bambina. Aveva
sempre finto di non notarlo, come se non ci fosse, perché sospettava che il
loro fragile equilibrio domestico si fondasse sulla capacità di ignorare quel
pozzo e che se un giorno avessero smesso di farlo, quel pozzo si sarebbe
spalancato e le avrebbe risucchiate tutte. Adesso che anche la zia non c'era
più, però, non poteva più continuare a fingere. Perché quel pozzo adesso era
lei.
Per questo si era portata gli scatoloni a casa. Era certa che se avesse
cercato con calma, senza l'agente immobiliare che le stava con il fiato sul
collo e senza l'eco della vita della zia fra le pareti vuote, avrebbe trovato
qualcosa. Non sapeva neanche lei che cosa, ma qualcosa doveva esserci.
Finché sua zia era viva non aveva mai osato chiedere niente. Qualche
volta aveva frugato in giro, rapidamente, ma senza risultato e sempre con
l'ansia che la zia la sorprendesse a curiosare fra le sue cose e le rivolgesse
una di quelle occhiate rare e tristi che significavano che l'aveva delusa.
Lo scatolone non era neanche chiuso con lo scotch. Lo aprì e vide che
dentro c'era davvero di tutto. La rubrica di cuoio rosso scurita sugli angoli,
che era sempre stata accanto al telefono, fin dai tempi di sua madre. Una
scatola mezza vuota di caramelle per la gola. Un ombrello verde a puntini
bianchi. Sul fondo, in un angolo, sentì qualcosa di freddo e duro, e capì
subito di che cosa si trattava. Era la confezione di tè che aveva trovato sul
tavolo della cucina, quella che la zia doveva avere comprato per lei e non
aveva fatto in tempo a regalarle. La tirò fuori.
Era una confezione curiosa, piccola e quadrata, nera, con una serie di
motivi stilizzati in oro. Elisa si chiese dove potesse averla comprata. Aveva
un'aria invecchiata, probabilmente si trattava di un tè pregiato, di quelli che
la zia a volte scovava nei suoi giri, nelle piccole pasticcerie in cui si
divertiva a curiosare e a rubare idee per le sue ricette.
Osservò meglio i disegni orientali e vide che i motivi dorati formavano
una foglia stilizzata, elegante e sottile. Le ricordava vagamente qualcosa,
forse una delle tante scatole allineate sugli scaffali della cucina della madre,
quando lei era piccola. Provò ad aprirla, ma era troppo dura, sembrava
incastrata.
La mise da parte e tornò allo scatolone. Due ore dopo però dovette
arrendersi. Aveva svuotato tutti gli scatoloni, uno per uno, e non aveva
trovato niente. Una lettera, un orologio, una pagina di diario. Niente. La sua
ultima speranza era stata delusa. Se la madre aveva mai conservato qualche
ricordo del padre, e le sembrava assurdo che non l'avesse fatto, doveva
essersene liberata molto tempo prima. O averlo nascosto così bene che
neanche adesso, svuotando la casa e ribaltandola da cima a fondo, Elisa era
riuscita a trovarlo.
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