La spada dell’aurora – Michael Moorcock

SINTESI DEL LIBRO:
I sinistri cavalieri spronarono i cavalli da combattimento su per i
pendii fangosi della collina, tossendo mentre il fumo nero e denso
che saliva dalla valle penetrava loro nei polmoni.
Era sera, il sole stava tramontando e le ombre si allungavano sul
terreno.
La luce del crepuscolo faceva apparire gli individui a cavallo come
creature gigantesche dalla fisionomia bestiale.
Ciascun cavaliere portava una bandiera, insudiciata dalle battaglie,
aveva sul capo una enorme maschera di metallo raffigurante il muso
di un animale e adorna di pietre preziose, ed era protetto da una
pesante armatura di ferro, ottone e argento, ammaccata e
insanguinata; tutti stringevano nella mano destra, guantata, un'arma
sulla quale si era incrostato il sangue di centinaia di innocenti.
I sei uomini a cavallo raggiunsero la vetta della collina e indussero le
proprie cavalcature stronfianti a fermarsi; conficcarono le bandiere
nel terreno, e lì rimasero, simili alle ali di un uccello da preda, a
ondeggiare nel vento ardente che spirava dalla valle.
La maschera da lupo si voltò per guardare la maschera da mosca, la
scimmia sbirciò la capra, il topo parve sorridere al cane... un sorriso
di trionfo. Le bestie dell'Impero Nero volsero lo sguardo al di là della
valle e al di là delle colline verso il mare, poi lo riportarono sulla città
in fiamme sotto di loro, dalla quale giungevano i deboli gemiti delle
creature massa-crate e torturate.
Il sole tramontò e cadde la notte, facendo splendere più vivide le
fiamme, riflesse dal metallo scuro delle maschere dei Signori di Gran
Bretagna.
«Bene, signori», disse il barone Meliadus, il gran conestabile
dell'Ordine del Lupo, comandante supremo dell'esercito. La sua
voce profonda e vi-brante rimbombava di sotto la grossa maschera.
«Bene, abbiamo conquistato l'Europa, ormai.»
Mygel Holst, lo scheletrico arciduca di Londra, capo dell'Ordine della
Capra, rise. «Già... tutta l'Europa. Fino all'ultimo centimetro. È anche
gran parte dell'Oriente ci appartiene, adesso.» L'elmo della capra
annuì, come per manifestare la propria soddisfazione, gli occhi di
rubino colsero il bagliore dei fuochi e lampeggiarono malignamente.
«Presto», ringhiò allegramente Adaz Promp, gran conestabile
dell'Ordine del Cane, «tutto il mondo ci apparterrà. Tutto il mondo!»
I baroni di Gran Bretagna, padroni di un continente, strateghi e
guerrieri dall'indomito coraggio e dalla grande abilità, incuranti delle
proprie vite, uomini dall'animo corrotto e dalle menti folli,
ossessionati dall'odio per tutto quello che non era in sfacelo,
detentori di un potere privo di alcuna moralità, forze senza giustizia,
ridacchiarono, lugubremente compiaciuti, mentre guardavano
crollare e morire l'ultima città europea che si era opposta a loro. Era
stata una città molto antica. Si chiamava Atene.
«Tutto il mondo», fece Jarak Nankenseen, generalissimo dell'Ordine
della Mosca, «tranne la Kamarg nascosta...»
Il barone Meliadus si abbandonò al malumore, allora, e fece un
gesto come se volesse colpire il suo collega generalissimo.
La maschera ingioiellata a forma di testa di mosca di Jarak
Nankenseen si voltò lievemente per guardare Meliadus e la voce
proveniente dal suo interno ebbe un tono di scherno. «Non ti basta
averli messi in fuga, barone, mio signore?»
«No», ringhiò, «non mi basta».
«Non possono rappresentare per noi alcuna minaccia», mormorò il
barone Brenal Farnu, gran conestabile dell'Ordine del Topo. «Da
quanto hanno previsto i nostri scienziati, essi esistono in una sfera
che si trova al di là della Terra, in qualche altra dimensione del
tempo e dello spazio. Noi non possiamo raggiungerli, ed essi non
possono raggiungere noi. Godiamoci il nostro trionfo, senza
consentire che venga rovinato dal pensiero di Hawkmoon e del
conte Brass...»
«Non posso!»
«O è un altro il nome che ti tormenta, fratello barone?» Jarak
Nankenseen stava prendendosi gioco dell'uomo che era stato suo
rivale in più di una avventura galante a Londra. «Il nome della bella,
Yisselda? È l'amore che ti anima, mio signore? Il dolce amore?»
Per un momento il lupo non rispose, ma la mano che stringeva la
spada si irrigidì, come in preda all'ira. Poi la voce piena, musicale, si
fece udire, e
aveva riacquistato la propria compostezza, assumendo un tono
quasi frivo-lo.
«La vendetta, barone Jarak Nankenseen, è quella che mi anima...»
«Sei un uomo estremamente passionale, barone...» disse
seccamente Jarak Nankenseen.
Meliadus a un tratto rinfoderò la spada e si protese per afferrare la
bandiera, strappandola dal terreno. «Hanno insultato il nostro re
imperatore, la nostra patria... e me stesso. Mi impadronirò della
fanciulla per il mio piacere, ma non sarà con la dolcezza che la
prenderò, nessun sentimento di debolezza mi animerà...»
«No, certo», mormorò Jarak Nankenseen, con una sfumatura
paternali-stica nella voce.
«... e quanto agli altri, mi prenderò anche con loro le mie
soddisfazioni...
nei sotterranei delle prigioni di Londra. Dorian Hawkmoon, il conte
Brass, il filosofo Bowgentle, l'essere sovrumano, Oladahn delle
Montagne Bulgare e il traditore Huillam D'Averc... tutti costoro
dovranno soffrire per lunghi anni. Questo è quanto ho giurato sulla
Bacchetta Magica!»
Si udì un suono alle loro spalle. Si voltarono tutti per scrutare nella
luce baluginante e scorsero una lettiga con baldacchino trasportata
su per la collina da una decina di ateniesi prigionieri di guerra,
incatenati alle stanghe.
Sulla portantina giaceva il non conformista Shenegar Trott, conte di
Sussex. Il conte Shenegar quasi non si degnava di indossare una
maschera, e quella che portava adesso era una maschera d'argento,
di poco più grande della sua testa, modellata in modo da ripetere, in
caricatura, i suoi stessi lineamenti. Non apparteneva ad alcun ordine
ed era tollerato dalla corte dell'Impero Nero per via delle sue
smisurate ricchezze e del suo coraggio quasi sovrumano in
battaglia... sebbene apparisse, con la veste ingioiellata e con quei
modi indolenti, più simile a uno stupido inebetito. Egli, ancora più di
Meliadus, godeva della fiducia (per quello che poteva valere) del re
imperatore Huon, perché i suoi consigli erano quasi sempre
eccellenti. Aveva chiaramente udito l'ultima parte della
conversazione e parlò in tono beffardo.
«Un giuramento pericoloso, barone, mio signore», disse con
dolcezza.
«Uno di quelli che possono, in fin dei conti, ripercuotersi su chi li
pronuncia...»
«L'ho pronunciato sapendo quello che rischiavo», ribatté Meliadus.
«Li troverò, conte Shenegar, non aver paura.»
«Sono venuto a ricordarvi, signori miei», disse Shenegar Trott, «che
il
nostro re imperatore sta diventando sempre più impaziente di
vederci e di ascoltare dalle nostre labbra l'annuncio che tutta
l'Europa ormai gli appartiene».
«Mi metterò immediatamente in cammino per Londra», disse
Meliadus,
«perché laggiù potrò consultare i nostri maghi-scienziati e scoprire il
modo per rintracciare i miei nemici. Vi saluto, signori».
Tirò le redini della cavalcatura, voltando la bestia, e incominciò a
discendere la collina nella direzione dalla quale era venuto,
osservato dai suoi colleghi.
Le maschere bestiali si mossero all'unisono nella luce degli incendi.
«Il suo strano modo di pensare potrebbe portarci tutti alla
distruzione», sussurrò uno di loro.
«Che importanza avrebbe?» ridacchiò Shenegar Trott, «dal
momento che tutto verrebbe distrutto insieme a noi...»
La risata che gli rispose fu selvaggia, riecheggiata dagli elmi
ingioiellati.
Era un riso folle, sfumato di odio nei confronti di loro stessi e al
contempo di odio per il mondo.
Perché era questa la grande forza dei signori dell'Impero Nero: non
attri-buire valore alcuno a nulla sulla terra, a nessuna dote umana, a
niente, sia che appartenesse a loro o ad altri. La diffusione delle
conquiste e della desolazione, del terrore e delle sofferenze, era il
loro più importante divertimento, un mezzo per occupare il tempo,
finché la vita non fosse giunta al termine. Per loro, la guerra
rappresentava ih sistema migliore per alleviare la noia...
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