La sirena – Camilla Läckberg

SINTESI DEL LIBRO:
Sapeva che prima o poi sarebbe venuto fuori. Una cosa del
genere non la si poteva tenere nascosta. Ogni parola l’aveva
avvicinato a ciò che era innominabile, spaventoso. Ciò che per tanti
anni aveva cercato di rimuovere.
Ora non poteva più fuggire. Mentre camminava il più velocemente
possibile sentì l’aria del mattino riempirgli i polmoni. Il cuore batteva
forte nel petto. Non voleva andarci, ma doveva. E così aveva
stabilito di lasciare che fosse il caso a decidere. Se ci fosse stato
qualcuno, avrebbe parlato. Se invece non avesse trovato nessuno,
avrebbe proseguito per andare a lavorare, come se non fosse
successo niente.
Ma quando bussò la porta si aprì. Oltrepassò la soglia e socchiuse
gli occhi nella luce fioca. La persona davanti a lui non era quella che
si era aspettato.
I capelli lunghi le ondeggiavano ritmicamente sulla schiena mentre
lo precedeva nella stanza successiva. Lui cominciò a parlare, a
chiedere, mentre i pensieri gli vorticavano nella mente. Niente era
come sembrava. Era sbagliato, o forse era giusto così.
D’un tratto si zittì. Qualcosa l’aveva colpito al diaframma con una
violenza tale da troncare le parole a metà. Abbassò gli occhi e vide il
sangue affiorare mentre la lama scivolava fuori dalla ferita. Poi una
nuova coltellata, una nuova fitta, e l’acciaio tagliente che gli si
muoveva nel corpo.
Capì che era la fine. Che la sua ora era scoccata, anche se gli
restavano tante cose da fare, vedere, vivere. Ma c’era anche una
sorta di giustizia, in questo. Non si meritava la bella vita che aveva
avuto, tutto l’amore ricevuto. Non dopo quello che aveva fatto.
Quando il dolore gli stordì tutti i sensi e il coltello si fermò fu la
volta dell’acqua. Il rollio di una barca. Poi sprofondò nel mare freddo
e non sentì più nulla.
L’ultimo ricordo fu quello dei capelli di lei. Lunghi, neri.
«Sono passati tre mesi! Perché non lo trovate?»
Patrik Hedström osservò la donna seduta davanti a lui, più stanca
e sciupata ogni volta che la vedeva. Veniva alla stazione di polizia di
Tanumshede ogni settimana dal giorno in cui suo marito era
scomparso, all’inizio di novembre. Tutti i mercoledì.
«Stiamo facendo il possibile, Cia. Lo sai.»
Lei annuì in silenzio, le mani che le tremavano leggermente in
grembo. Poi alzò su di lui gli occhi pieni di lacrime. Non era la prima
volta che Patrik sosteneva quello sguardo.
«Non tornerà più, vero?» Ora non erano solo le mani a tremare,
ma anche la voce, e Patrik dovette trattenersi dall’alzarsi, fare il giro
della scrivania e abbracciare quella donna fragile. Doveva
mantenere un comportamento professionale, anche se questo
voleva dire contravvenire al suo istinto protettivo. Rifletté sulla
risposta da darle. Alla fine inspirò profondamente. «No, non credo.»
Cia Kjellner non fece altre domande, ma lui si accorse che le sue
parole avevano solo confermato ciò che lei già sapeva. Suo marito
non sarebbe tornato a casa. Il 3 novembre Magnus si era alzato alle
sei e mezza, aveva fatto la doccia, si era vestito, aveva salutato i
due figli e poi la moglie, diretti rispettivamente a scuola e al lavoro.
Lui era uscito di casa più tardi, poco dopo le otto, per andare alla
Tanumsfönster. Da quel momento se ne erano perse le tracce. Non
era mai arrivato dal collega che avrebbe dovuto dargli un passaggio
in auto, svanendo nel nulla in un punto imprecisato tra la sua
abitazione nella zona del campo sportivo e la casa del collega dalle
parti del campo di minigolf di Fjällbacka.
Avevano passato in rassegna tutta la sua vita. Avevano diramato
avvisi di ricerca, parlato con più di cinquanta persone, sia colleghi
che familiari e amici, frugato a caccia di debiti da cui poteva essere
fuggito, amanti, frodi contabili o qualsiasi cosa potesse spiegare la
scomparsa nel nulla da un giorno all’altro di un quarantenne dotato
di una posizione solida, con moglie e figli adolescenti. Non avevano
trovato niente. Non risultava che fosse andato all’estero e neanche
che avesse prelevato denaro dal conto cointestato con la moglie.
Magnus Kjellner si era trasformato in un fantasma.
Dopo aver accompagnato Cia all’uscita, Patrik bussò piano alla
porta di Paula Morales. «Avanti» sentì rispondere subito. Entrò e se
la chiuse alle spalle.
«Di nuovo sua moglie?»
«Sì» rispose Patrik con un sospiro, sedendosi davanti alla
scrivania e mettendoci sopra i piedi. Ma l’occhiataccia della collega
lo indusse a toglierli subito.
«Pensi che sia morto?»
«Sì, purtroppo» rispose. Era la prima volta che esprimeva ad alta
voce il timore nutrito fin dai primi giorni. «Abbiamo controllato tutto e
non c’è nessuna delle solite motivazioni che possono giustificare una
scomparsa. Pare che sia solo uscito di casa e poi... svanito nel
nulla!»
«Ma niente cadavere.»
«No, niente cadavere. E dove dobbiamo cercarlo? Non possiamo
dragare il mare intero, o perlustrare palmo a palmo tutti i boschi
intorno a Fjällbacka. Possiamo solo girare i pollici e sperare che
qualcuno lo trovi, vivo o morto. Perché adesso non so proprio più
cosa fare. E neanche so cosa dire a Cia quando viene qui tutte le
settimane aspettandosi che abbiamo fatto progressi.»
«È solo il suo modo di affrontare la tragedia, vuole reagire invece
di starsene a casa ad attendere. Fossi nei suoi panni, l’inattività mi
farebbe impazzire.» Paula lanciò un’occhiata alla foto accanto al
computer.
«Sì, lo so» disse Patrik. «Ma non per questo mi pesa meno.»
«Be’, certo.»
Dopo qualche attimo di silenzio Patrik si alzò.
«Non resta che sperare che salti fuori, in un modo o nell’altro.»
«Già» concordò Paula, con lo stesso tono rassegnato.
«Cicciona!»
«Senti chi parla!» Anna guardò la sorella indicando con un gesto
eloquente la sua pancia.
Erica Falck si girò di profilo verso lo specchio, come Anna, e
dovette ammettere che aveva ragione. Dio santo, era davvero
enorme. Sembrava una pancia gigantesca a cui fosse stata
appiccicata un po’ di Erica per pura formalità. E il peso si sentiva
tutto. In confronto, quando era incinta di Maja era un prodigio di
agilità. D’altra parte questa volta i bambini erano due.
«Non ti invidio per niente» disse Anna con la brutale sincerità
tipica delle sorelle minori.
«Ah, grazie davvero!» esclamò Erica spintonandola con la pancia.
Anna la imitò e per poco non persero entrambe l’equilibrio. Ridevano
tutte e due così forte che dovettero sedersi sul pavimento.
«Non è possibile!» disse Erica asciugandosi qualche lacrima.
«Non si può sembrare un incrocio tra Barbapapà e quel signore dei
Monty Python che esplode dopo aver mangiato una mentina.»
«In effetti sono proprio contenta dei tuoi gemelli. In confronto mi
sento una silfide.»
«Mi fa piacere per te» disse Erica cercando di alzarsi, con scarso
successo.
«Aspetta, ti aiuto io» intervenne Anna, ma anche lei, sconfitta dalla
legge di gravità, ricadde pesantemente sul sedere. Si scambiarono
un’occhiata d’intesa e gridarono all’unisono: «Dan!»
«Cosa c’è?» si sentì dal piano di sotto.
«Non riusciamo ad alzarci!» rispose Anna.
«Cos’hai detto?»
Lo udirono salire le scale in direzione della camera da letto.
«Ma cosa state combinando?» esclamò divertito vedendo la
compagna e la cognata sedute a terra davanti allo specchio a
parete.
«Non riusciamo ad alzarci» rispose Erica con tutta la dignità che
riuscì a chiamare a raccolta, tendendo una mano.
«Aspettate che vado a prendere il muletto» disse Dan fingendo di
scendere di nuovo.
«Ehi, tu!» lo ammonì Erica mentre Anna continuava a ridere.
«E va bene, forse ce la faccio da solo.» Dan le afferrò la mano e
tirò. «Oh... issa!»
«Lascia perdere gli effetti sonori, per favore.»
Erica si rizzò faticosamente in piedi.
«Mamma mia se sei grossa!» esclamò Dan, e lei gli diede una
sberla sul braccio.
«Ormai l’avrai detto almeno cento volte, e non sei il solo. Mi fai il
piacere di piantarla? Guardati la tua, di cicciona.»
«Molto volentieri.» Dan tirò su Anna e ne approfittò per stamparle
un bacio sulla bocca.
«Sciò, a casa» gli disse Erica dandogli di gomito.
«Veramente ci siamo già, a casa» rispose lui baciando di nuovo la
compagna.
«Giusto, ma allora vediamo di concentrarci sul motivo per cui mi
trovo qui» concluse Erica andando verso l’armadio della sorella.
«Non capisco cosa ti fa pensare che io possa aiutarti» disse Anna
seguendola. «Dubito di avere qualcosa che ti vada bene.»
«Be’, e cosa faccio, allora?» Erica passò in rassegna i capi sulle
grucce. «Stasera c’è la festa per il lancio del libro di Christian e
l’unica alternativa che ho è la tenda degli indiani di Maja.»
«Okay, okay, qualcosa dovremmo riuscire a inventarci. I pantaloni
che hai addosso non sono niente male e credo di avere una camicia
che forse potrebbe contenerti tutta. A me era un po’ grande,
almeno.»
Tirò fuori dall’armadio una tunica lilla ricamata. Erica si tolse la
maglietta e con l’aiuto della sorella se la infilò. Abbassandola sulla
pancia si sentì un po’ una salsiccia, ma ci stava dentro. Si girò verso
lo specchio e scrutò critica la propria immagine.
«Stai d’incanto» commentò Anna, ed Erica le rispose con un
grugnito.
Considerando l’ingombro del momento, essere un incanto le
sembrava un po’ un’utopia, ma se non altro aveva un aspetto
dignitoso e sembrava quasi elegante.
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