La peste nuova – Fulvio Abbate

SINTESI DEL LIBRO:
I fai particolari mostrati in questa cronaca, presumibilmente esaa, sono
avvenuti in una cià ordinaria, simile a molte altre, popolata da individui
segnati dai limiti, dalla volontà e dai convincimenti propri del genere
umano. I nostri protagonisti raccontano le difficoltà nel custodire il talento
che consente la sopravvivenza individuale, ma anche quanto l’assenza di
questo, cioè del talento stesso, talvolta sia determinante per le proprie
viorie, sia in tempi non meno ordinari sia in una situazione di
eccezionalità, come le circostanze imprevedibili e nient’affao
convenzionali determinate da una tragica epidemia.
Valeria, l’unica persona, fra tue quelle frequentate, che abbia mai
provato a suggerirmi un metodo per le nostre storie, Valeria, in grado di
offrirmi soluzioni efficaci rispeo alla difficoltà dei tempi e del fare, ha
lasciato la cià poco prima che la prefeura rendesse visibile la propria e
la nostra insignificanza davanti alla peste, così come i suoi comunicati.
L’ho accompagnata alla stazione, e lei, intanto che meevo in moto l’auto,
si guardava intorno, scuoteva la testa, socchiudeva gli occhi, mi guardava
di sbieco per riprendere a scuotere il capo.
Non avrebbe smesso di far così per tuo il percorso, Valeria, con il suo
bagaglio essenziale, uno zaino da fuggiasca cosciente. el giorno, la
frea le aveva fao sbavare il trucco sugli zigomi, l’ombreo verde che
non le avevo mai visto meere.
Valeria, mentre andava via, non rimpiangeva le occasioni perdute, il
lavoro rimasto incompiuto sulla scrivania comune. In realtà, Valeria, quel
primo pomeriggio di febbraio, era soltanto interessata a portare se stessa
lontano dalla cià. Nelle sue pupille scorreva soltanto la fuga dei platani lì
sul corso.
Dopo che il suo treno veloce è scomparso dietro la schiera di caseggiati
ospedalieri che fanno ala alla stazione, ho fao ritorno a casa, mi sono
seduto davanti alla finestra che mostrava gli edifici di fronte:
domandandomi in che modo avrei, da solo, continuato il lavoro; il vento
arruffava intanto le camicie bianche lì sul filo.
Poco lontano, il silenzio della grande caserma dell’Arma del genio, i
magazzini sempre meno colmi di scorte, i generi di prima necessità
cominciavano a mancare anche a loro; alcune compagnie del reggimento,
iniziando da quella dei pontieri, erano addiriura state messe in
quarantena; sebbene in mimetica ed elmeo, avranno avuto i miei stessi
pensieri, le domande sospese che tui condividevamo nelle prime
seimane di epidemia. Forse perfino l’ufficiale di piccheo davanti alla
porta carraia, sciarpa azzurra obliqua sull’uniforme cachi dai booni
dorati, la pistola nella fondina di tela.
Non sapevo più su cosa scommeere, in che modo correre ai ripari, alla
profilassi. Svolgevo un mestiere singolare, invisibile, forse. Che, sempre in
quei giorni, ritenevo servisse a salvare nessuno, neppure ad abbaere una
cavia, ancora meno riportare in vita una ragazza amata, amuleto
femminile vivente della squadra di calcio locale.
Chiunque, poco importa se donna o uomo, di solito, in momenti simili,
riesce a immaginare l’impegno straordinario di medici, rianimatori, tecnici
di laboratorio, infermieri, addei alle trasfusioni, anestesisti, infeivologi,
pneumologi, e ancora ferriste, portantini o addiriura custodi delle camere
mortuarie – che vanno avanti e indietro levigati dall’affanno, i camici
bianchi o verdi da chirurghi, dentro le ambulanze – e perfino di chi un
lavoro autentico, riconosciuto decoroso, non lo possiede, eppure si ritrova
convocato comunque d’urgenza per assistere, per avere ragione di una
vena che non si mostra in superficie, perfino di un’asola, o magari
medicare una ferita, per scostare un saccheo colmo di vomito, tollerando
la vista del plasma che oscilla dentro la sacca di plastica. Ma non esisteva
nessuno, in cià, che sapesse spiegarsi che bisogno vi fosse di
professionisti come me.
Paradossalmente, poteva darsi che questi dubbi avessero fondamento,
almeno per chi voglia escludere l’immaginazione leeraria come scienza
empirica per eccellenza: dal primo giorno del tempo, nulla si conosce degli
inventori di storie, di più, di barzellee; né il domicilio né l’aspeo, e
ancora meno la genesi dei loro pensieri, se davvero questi, nelle
circostanze estreme, quando risuonano le sirene, sono in grado di produrre
qualcosa di utile a se stessi e alle cià. Eppure, tra loro, vanno ricordati i
fratelli Marx – Groucho, Chico, Harpo, Zeppo e Gummo – e ancora, senza
necessariamente risalire al Medioevo, alla novellea allegra, al discorso
burlesco, alle facezie, le arguzie, le freddure, il moo scherzoso, i favolatori
buffoni, l’epigramma, gli aneddoti, le parabole, occorreva citare Eore
Petrolini, Achille Campanile con il suo Traato delle barzellee, e Umberto
Eco che si deliziava a raccontarle.
Nelle ultime seimane, mentre volontari ed esperti in epidemie si
radunavano per cercare un riparo per i contagiati, fra le sirene bitonali
della Croce e della Mezzaluna Rossa, a me personalmente restava la
consolazione di passeggiare nelle piazze spopolate.
Passeggiate senza scopo, andavo soprauo incontro allo sguardo
altrui; ai loro occhi non avrei dovuto essere ancora lì incolume nella mia
non necessaria pubblica esistenza.
Anche gli amici e le amiche di sempre: colleghi, vicini di casa, ex
fidanzate, amanti occasionali, remote compagne di scuola, incontrandomi
non potevano fare a meno di ripetere: “Guido, siamo sempre costree a
giustificarti, a difenderti, così sempre, così da una vita, non avresti almeno
potuto scegliere un altro mestiere? alcosa di più semplice per farti
acceare nella nostra società?”
“Facciamo che la prossima volta direte direamente di vergognarvi di
conoscermi, va bene?” rispondevo senza polemica.
Poi, d’abitudine, andavo scorrere con lo sguardo i giornali che, secondo
un vicino, Salvo, sarebbero usciti ancora per poco, fino all’esaurimento
delle scorte di carta. Nello stesso tempo, già che c’ero, ripensavo pure al
mio lavoro, immaginando ogni genere di storia, possibilmente modeste, da
accartocciare nel cestino subito dopo, cose che non sarebbero servite a
sostenere l’umanità smarrita, immersa già nel timore panico che avevo
intorno.
Gli stessi che talvolta avrebbero dovuto soltanto tacere, posto che
volentieri apprezzavano le storie dei miei colleghi più ordinari, banali,
commerciali, professionisti non meno mediocri di me.
* * *
In un solo mese l’epidemia si è faa pandemia, e ha conquistato,
almeno per sé, sempre più certezze: gli obitori ricolmi di bare, salme in
aesa delle cremazioni, il gasolio per praticarle ormai introvabile. Così
fino a quando due sconosciute mi si sono accostate in strada, anzi, quasi
mi sono venute addosso.
Forse però è il caso di procedere con ordine, senza fermo-immagine
sulle ragazze comparse all’improvviso, tornando invece alla partenza di
Valeria.
Sentivo un senso di pienezza espressiva insieme a lei, la ragazza
possedeva le parole esae per restituire le sensazioni, che è poi il senso
stesso della cultura, della leeratura: dare un nome alle cose. La guardavo
sempre in quei momenti, mentre pensava e un aimo riversava ogni idea
su un foglieo, per poi meerla nel computer. Ancora adesso ripenso la
sua mano accostata al mento e alle labbra. Noi seduti accanto, a meere
parola dopo parola, a cancellare intere frasi, riscrivere tuo daccapo, a
dire: “Sì, ci siamo quasi, Valeria, stiamo per farcela, la vedo già, la vedo
proprio, mi sembra una buona storia.”
È stato proprio in questo modo che abbiamo inventato decine di
barzellee.
Ritenevamo potessero diventare presto da tui risapute e propalate,
leggendarie, le avremmo presto perse di vista, come accade sempre con le
storie quando diventano patrimonio comune, quasi come i figli adolescenti
quando escono da soli per la prima volta, e intanto i genitori, nella luce
tardo pomeridiana, non vedendoli rincasare, fra mille timori e congeure
tragiche, li immaginano già dentro i cassei della morgue.
Ci eravamo conosciuti per caso perché, forse, il meraviglioso accade
senza ordine apparente: in un locale minuscolo, traoria senza pretese,
colma già dalle prime ore di residenti del rione; alle pareti i ritrai dei
genitori da anni deceduti, dei gestori, le foto con dedica di un trequartista
e di un aore poco celebre che interpretava un tenente colonnello dei parà
in un film. Le prime parole da un tavolo all’altro, e Valeria che rilancia
facendo un segno affermativo con il capo, Valeria, cosa rara, quel primo
giorno, possiede la semplicità di chi non sembra temere nulla, neppure il
fraintendimento. Senza questa dote non mi sarebbe rimasta accanto per
oltre tre anni.
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