La piramide perduta – Nacho Ares

SINTESI DEL LIBRO:
Dalle finestre di Castle Carter proveniva una luce tenue ma
sufficiente a dar forma all’edificio avvolto nelle ombre di Elwat elDiban, in fondo alla strada che conduceva alla valle dei Re nella
parte occidentale di Luxor. Era la fine di novembre, ma il calore in
quella zona desertica si faceva ancora sentire. Le finestre
leggermente socchiuse lasciavano entrare una lieve brezza fresca,
mentre dall’interno giungevano le voci allegre degli invitati al
rinfresco organizzato in onore di Lord Carnarvon. La ragione dei
festeggiamenti giustificava quell’entusiasmo: il quinto conte di
Carnarvon aveva appena rinvenuto, insieme all’egittologo Howard
Carter, la tomba intatta di un faraone nella vicina necropoli reale di
Biban el-Moluk, la valle delle Porte dei Re, meglio nota come valle
dei Re.
Nel silenzio della notte, per la Montagna Tebana riecheggiavano
grida, risate e ingenue congetture circa i possibili tesori che
potevano trovarsi all’interno del sepolcro. Quello era l’unico
argomento di conversazione, e il nome del faraone, Tutankhamon,
correva di bocca in bocca.
Lord Carnarvon si aggirava tra gli invitati, salutando e ricevendo le
congratulazioni di archeologi, amici e autorità. A seguito di un
incidente d’auto avvenuto qualche anno prima, non si separava mai
dal proprio bastone, ma comunque si muoveva con disinvoltura tra
gli ospiti. Di un’eleganza innata, con baffi e capelli biondi ben curati e
due occhi azzurri dallo sguardo profondo, Carnarvon incarnava il
perfetto stile inglese, il prototipo di un’immagine signorile che la
famiglia di Highclere aveva tramandato per generazioni.
Dopo due decenni di lavoro infruttuoso, i cui risultati potevano
essere contenuti in un piccolo baule, il conte si sentiva pieno di
orgoglio per il sensazionale ritrovamento.
Carnarvon si era subito reso conto che tra i partecipanti al
ricevimento mancava il più importante. L’evento si celebrava nella
dimora che il conte aveva fatto costruire dieci anni prima per l’amico
e compagno di avventure Howard Carter, il quale, però, non si
vedeva da nessuna parte. L’aristocratico si avvicinò a uno dei tavoli
lungo la parete del piccolo salone su cui erano disposti cibi e
bevande e accanto al quale si trovava Evelyn Herbert.
«Dov’è Howard?», domandò a sua figlia, finendo l’ultimo sorso di
whisky e passando in rassegna con lo sguardo gli invitati.
«Non ne ho idea. Nel giardino interno non c’è, ci sono appena
stata. Credevo fosse con te», rispose la ragazza con espressione
annoiata. «Vuoi che vada a cercarlo?», aggiunse con un bagliore di
entusiasmo negli occhi.
«Sì. Magari è in cucina con Ahmed».
Lady Evelyn Leonora Almina Herbert, la bella figlia di Lord
Carnarvon, non esitò un istante a soddisfare la richiesta del padre e,
dopo un rapido cenno del capo, uscì dalla sala. Era una giovane
dinamica, snella, con il collo sottile e flessuoso cinto da un’elegante
collana di perle dalla quale si separava di rado. I capelli neri, lisci e
folti, con la frangia ondulata secondo la moda dell’epoca, le
incorniciavano i delicati lineamenti del viso conferendole un’aria
piuttosto ingenua. Ai lati del naso si intravedevano delle lentiggini
quasi impercettibili, che, al sole dell’Egitto, si scurivano
accentuandone ulteriormente l’aspetto innocente. Gli occhi castani
erano insoliti per una Carnarvon, ma senza dubbio la sua personalità
rispecchiava quella della propria stirpe.
I suoi ventun anni la ponevano di diritto al centro dell’attenzione
durante gli incontri mondani; ma quella sera il suo protagonismo era
relegato in secondo piano. La colpa era tutta del faraone
Tutankhamon, e lei ne era ben lieta. Detestava dare spiegazioni
sulla propria vita, i propri viaggi, le sue imminenti nozze con un
giovane inglese e dover sorridere di continuo quando invece
avrebbe voluto soltanto fuggire a gambe levate dal ricevimento di
turno.
Lady Evelyn si diresse verso la cucina in fondo al corridoio, con le
collane e i braccialetti che tintinnavano a ogni passo. Lì trovò
solamente due uomini della servitù che preparavano altri vassoi con
bibite e dolci per gli invitati. La porta del patio era aperta.
«Il signor Carter è in cortile?», domandò, avvicinandosi alla porta
per poi affacciarsi all’esterno.
«No, signorina…».
Ma Evelyn non sentì la risposta, era già uscita dalla cucina, diretta
di nuovo verso il salone.
Per come la vedeva lei, Castle Carter non era assolutamente
all’altezza del proprio nome. Nessuno dotato di un pizzico di senno
avrebbe mai potuto affermare che quel luogo fosse grande, e tanto
meno si sarebbe potuto definire un “castello”. I libri della biblioteca
nella sua amata residenza di Highclere, a Newbury, ci sarebbero
stati a malapena. Castle Carter era un’abitazione a un piano con tre
stanze, un salone, uno studio, una cucina e un bagno. Era
semplicemente più spaziosa di quella in cui l’archeologo era stato
per molti anni, a Medinet Habu, a pochi chilometri di distanza. “E
avevano il coraggio di chiamare castello anche quella topaia”,
ricordò incredula la ragazza.
La nuova residenza era piuttosto modesta, ma soddisfaceva le
necessità primarie del suo inquilino: comoda, funzionale e, cosa
ancor più importante, ben aerata. I soffitti a volta favorivano la
circolazione dell’aria impedendo che ristagnasse all’interno e
creando un ambiente fresco anche nei periodi più torridi dell’anno.
Tuttavia, quella sera di novembre il gran numero di ospiti riuniti in
casa aveva fatto salire la temperatura, e molti di loro si erano visti
costretti a uscire nella spianata di terra di fronte all’entrata principale.
Teatro di tanta animazione, Castle Carter sembrava ancora più
piccolo.
Evelyn riteneva che Howard Carter non potesse essere molto
lontano, e in effetti non si sbagliava. Nello studio la luce era accesa
e la porta socchiusa.
«Howard, sei lì dentro?», domandò, posando un orecchio sulla
porta.
L’unica risposta che ricevette fu lo scricchiolio di un disco di
ardesia che girava sul piatto del grammofono.
Spinse la porta con una mano e vide il fumo di una sigaretta levarsi
verso la luce della lampada che illuminava lo studio.
«Howard, che ci fai qui? Sono tutti in sala a godersi questa bella
serata».
Howard sollevò lentamente lo sguardo verso la giovane e abbozzò
un sorriso, invitandola a entrare con un cenno del capo.
Carter ed Evelyn erano grandi amici. Alcune malelingue
sostenevano che l’archeologo avesse con la figlia del suo mecenate
una torbida relazione. Si rimproverava a entrambi di ostentare un
rapporto troppo confidenziale, ma non erano altro che pettegolezzi
infondati. L’egittologo, che aveva trent’anni più della ragazza, era
soltanto un suo buon amico, ed era stato uno dei primi a venire a
sapere, proprio per bocca di Evelyn, che da lì a qualche mese la
ragazza si sarebbe sposata con Sir Brograve Campbell Beauchamp,
notizia che aveva allietato enormemente il solitario esploratore. Il
fidanzamento era stato tenuto segreto, e solo i parenti più stretti ne
erano al corrente. La giovane considerava Carter un confidente,
quasi un membro della famiglia.
Le voci su quella presunta relazione non erano nuove ed erano
destate soprattutto dal carattere riservato e scorbutico
dell’archeologo. Asociale, schivo e dai modi talvolta bruschi, Howard
Carter si era fatto negli anni di permanenza in Egitto numerosi
conoscenti e nemici, ma assai pochi amici. Nessuno l’aveva mai
visto con una donna, e la cosa suscitava grande scalpore tra gli
egiziani, che non comprendevano come un uomo della sua età
potesse non essere sposato e avere una prole numerosa – normale
consuetudine nel continente africano. Le malelingue arrivavano
persino ad affermare che Carter godesse dei servigi di un ragazzino
egiziano; diceria che l’archeologo evitava di confermare o smentire.
In fondo, non gli dispiaceva che attorno alla sua figura fosse nata
una leggenda alla quale chiunque apportava il proprio contributo. In
Egitto le cose andavano così.
L’inglese non lasciava mai nessuno indifferente. Il fatto che
quell’individuo privo di qualunque formazione accademica fosse
arrivato fino a quel punto era fonte di non poche perplessità tra gli
europei. Carter aveva imparato tutto sul campo quando, poco più
che adolescente, aveva iniziato a lavorare come disegnatore per i
maggiori esperti. Aveva svolto incarichi importanti presso il Servizio
egiziano delle antichità, disegnava e dipingeva in maniera
eccezionale e aveva un fiuto impareggiabile per i lavori di scavo.
Grazie alla sua esperienza, e a una tenacia che in pochi avevano
dimostrato di possedere in tutta la valle dei Re, la sua carriera era
culminata nell’importante successo del ritrovamento della tomba di
Tutankhamon.
Nel selezionato gruppo di persone ritenute degne della sua
amicizia si trovava la figlia del suo mentore. Carter vedeva in Evelyn
una giovane entusiasta, in grado di apprezzare e comprendere il suo
lavoro al di là delle stucchevoli lusinghe alle quali i suoi colleghi lo
sottoponevano quasi quotidianamente. Si divertiva in sua compagnia
durante gli scavi e a illustrarle le ultime scoperte. Ciononostante,
ligio al suo dovere professionale, non lasciava mai che la ragazza
estraesse qualcosa da terra. Quella responsabilità spettava solo ed
esclusivamente a lui.
Lady Evelyn lo osservava dalla soglia. In sottofondo, il lamentoso
suono del grammofono continuò fino a quando la puntina terminò di
leggere l’ultimo solco del disco. Carter, seduto alla scrivania piena di
cassetti straripanti di documenti, disegni e progetti che sarebbero
parsi illeggibili a chiunque altro, la osservava con un sorriso celato
sotto i baffi neri. Era impossibile comprendere cosa gli passasse per
la testa.
«Howard, non sei contento del ritrovamento?».
Carter si alzò, prese per mano la giovane e facendola entrare
richiuse la porta. Si avvicinò al grammofono, cambiò il disco
mettendo l’Aria della regina della notte di Mozart. Poi si avvicinò alla
finestra e la spalancò per far entrare la brezza. Le allegre
conversazioni degli invitati davanti alla casa giungevano fino allo
studio.
Quando il disco cominciò a suonare, il canarino che avevano
regalato a Carter una settimana prima prese a cantare. Evelyn
guardò la gabbietta appesa alla finestra e sorrise.
«Che carino. Ti ricordi cosa hanno detto gli egiziani quando papà
te lo ha regalato?», domandò Evelyn, nel tentativo di coinvolgere il
suo amico nella conversazione. «Lo hanno chiamato “l’uccello
d’oro”. Dicevano che avrebbe annunciato la scoperta di un grande
tesoro, di enormi ricchezze e pietre preziose. A quanto pare non si
sbagliavano».
Carter si sedette sul bordo della scrivania e continuò a osservarla
in silenzio.
«Hai appena realizzato il sogno di qualunque archeologo!»,
aggiunse lei, cercando nuovamente di incoraggiarlo.
«Così pare», rispose infine Carter, tenendo il tempo della musica
con il piede. «Si tratta del ritrovamento più affascinante mai
rinvenuto non soltanto in Egitto, ma in tutto il pianeta».
Nell’udire il caratteristico accento della contea di Norfolk che
l’archeologo non aveva mai perduto, Lady Evelyn tirò un sospiro di
sollievo.
«Ah, meno male. Per lo meno sei tornato in te. Allora, sei felice o
no?»
«E come potrei non esserlo?», rispose Carter, richiudendo un
quaderno di lavoro sulla scrivania. «Abbiamo soltanto rimosso i
calcinacci del corridoio di accesso e siamo entrati in un paio di
stanze. Grazie a questo uccellino dorato abbiamo trovato qualcosa
di speciale, qualcosa che nessuno, neppure nei suoi sogni più rosei,
avrebbe mai osato immaginare: una tomba stracolma di cose
meravigliose», disse, ponendo l’enfasi sulle ultime parole.
«Sì, cose meravigliose. Eppure te ne stai chiuso qui dentro come
se avessi appena scoperto i reperti più insignificanti del mondo,
qualcosa che potresti trovare tutti i giorni prendendo a calci una
pietra nel deserto. Oltretutto, se devo essere sincera, mi sembra un
comportamento assai scortese e una mancanza di rispetto nei
confronti dei tuoi ospiti».
«Non sono ospiti miei, ma di tuo padre», ribatté Carter, facendo
sfoggio del suo proverbiale carattere scontroso.
«A volte penso proprio che la fama di impertinente e antipatico che
ti hanno affibbiato sia davvero meritata».
«È questo che dicono di me?», domandò Carter ridacchiando. «Sai
bene che non sono affatto così. A vedermi in quel modo sono solo
quegli arroganti degli amici di tuo padre, incapaci di comprendere
tutto il lavoro che c’è dietro a un ritrovamento come quello che
abbiamo appena portato alla luce. Di certo non apprezzerebbero
così tanto la nostra impresa se Lord Carnarvon non possedesse un
titolo nobiliare».
«Be’, allora vai là fuori e dimostra a tutti come la pensi», lo esortò
la giovane, inarcando le sopracciglia.
«Io non devo dimostrare proprio nulla. Che mi unisca o meno a
quelle persone non accrescerà né sminuirà l’importanza della tomba.
Nessuno degli invitati là fuori sa un bel niente della cultura
faraonica».
«Immagino tu sia preoccupato in vista del lavoro da affrontare.
Papà mi ha detto che avete intenzione di organizzare una squadra di
professionisti con gente del Metropolitan di New York».
Evelyn si avvicinò alla finestra e guardò fuori, dove un nutrito
gruppo di persone si stava divertendo sulla sabbia sottile del
deserto.
«In effetti, si tratta di professionisti molto competenti», confermò
l’egittologo. «Però, al momento non è Tutankhamon a
preoccuparmi».
La figlia di Carnarvon fu sorpresa dal suo tono, e si rese
immediatamente conto dell’inquietudine che affliggeva il suo amico;
qualcosa non quadrava.
«Che succede, Howard? Papà non mi ha detto niente…».
Prima che terminasse la frase, Carter indicò il tavolo. Tra le varie
carte c’era un pezzo di pietra calcarea. Era piccolo e bianchissimo,
misurava appena una decina di centimetri. Sulla superficie, in
geroglifico corsivo, c’era una scritta per lei incomprensibile.
La ragazza si rigirò il frammento tra le mani, sul retro comparivano
altri simboli. Delle linee nere curve a cui se ne sovrapponevano altre
rosse tratteggiavano uno strano disegno. Anche se cancellato, si
poteva vedere un disco circondato da diversi segmenti, forse raggi,
che terminavano nel disegno di mani. L’incomprensibile diagramma,
a metà tra uno scarabocchio fatto da qualcuno che prova una penna
e lo schema di qualcosa di astratto, era difficile da decifrare. Su un
documento vicino alla pietra era disegnata una fedele riproduzione.
«Disegni davvero bene. Che cos’è?»
«Leggi», rispose l’archeologo in tono brusco.
Nella parte inferiore della pagina piena di macchie d’inchiostro e
correzioni c’era quello che sembrava un tentativo di traduzione.
Evelyn osservò incerta l’amico, ma lo sguardo di Carter la esortò a
iniziare la lettura.
«“Dal salice al generale in capo… sedici passi, e alla tomba di
Meryatum, il più grande dei supervisori, tredici passi. Dal salice
alla…”». Il testo si interrompeva all’improvviso. «Cos’è, Howard? E
cosa sono questi scarabocchi accanto ai simboli?».
Carter spense la sigaretta e si avvicinò alla ragazza emanando un
intenso odore di tabacco.
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