La carezza e la mitraglia – Massimiliano Gollini

SINTESI DEL LIBRO:
Il giorno in cui tornò non aveva niente. La mattina era già immersa in
una bolla di caldo così spessa che i palazzi e le strade sembravano
soffocare. L’aria tremava. La città era silenziosa, in attesa. Non era
facile camminare per quelle strade distrutte, schivando buche e
macerie. I ricordi si sovrapponevano.
Nemmeno i vestiti erano suoi. Quelli che indossava li aveva avuti
da un inglese sulla nave. Un tizio dai capelli rossi e la pelle così
chiara da sembrare trasparente aveva preso i suoi stracci senza un
commento, dandogli in cambio dei pantaloni di tessuto marrone, una
camicia bianca e un paio di bretelle. Tutto almeno tre taglie più
grandi della sua.
Il giorno in cui tornò era giovedì. Se fosse capitato in città di
domenica, avrebbe potuto vedere gli uomini stretti in gruppetti, nella
piazza maggiore, scambiarsi notizie, raccontarsi le proprie storie,
commentare le mosse che la nuova Italia stava facendo. Ma quando
lui arrivò, le uniche persone che vedeva sembravano disperse, in
cerca di frammenti di una vita che non c’era più. La città era in
ginocchio, provata da anni di guerra, fame, solitudine, parole non
dette.
Ma non era sconfitta. Aveva resistito.
Il giorno in cui tornò era il 25 luglio 1946 e non aveva niente,
tranne una promessa, un ricordo e un indirizzo.
17 aprile 1945
Martedì, ore 5 e 37
Anima
La ragazza appoggiò il fucile accanto a sé, il calcio a terra e la lunga
canna contro una roccia di granito che sbucava dal terreno. Non
voleva che l’umidità entrasse nell’otturatore e nemmeno che
rovinasse il meccanismo di scoppio. Dopo le modifiche, il MosinNagant russo era diventato un’arma di precisione, ma leggero e
delicato. Una cosa di cui avere cura.
Si sfilò dalle spalle il piccolo zaino, estrasse una delle borracce e
bevve tre sorsi d’acqua, a breve distanza uno dall’altro. Asciugò le
labbra con il dorso della mano e rimise la fiaschetta al suo posto,
sistemando la sacca tra le gambe. Appoggiò la schiena contro il
tronco del faggio, strinse gli occhi e rimase in attesa.
Il cuore copriva tutto. Lo sentiva battere con forza e non riuscì a
capire se era per la lunga camminata o per l’emozione. Spinse una
mano sul petto e cercò di calmarsi, controllando il respiro, ma non
servì. Aveva percorso il tragitto con passo veloce, testa bassa,
sguardo sugli scarponi e non c’era stato verso di rallentare il passo.
Nemmeno provandoci con impegno.
Era entrata nel bosco a valle, aveva guadato il torrente e iniziato
la salita che partiva dall’altra sponda, raggiunto il punto prestabilito,
lasciato il sentiero e conquistato la vetta seguendo una linea retta.
La foresta era così buia che era stato difficile distinguere gli alberi a
pochi metri di distanza. Una volta arrivata sul crinale, aveva iniziato
la breve discesa. Due ore di salita e venti minuti di discesa, per
accorgersi che era più difficile scendere che salire.
Tenendo sempre gli occhi chiusi, tolse il berretto e si passò le
mani tra i capelli, formando una piccola coda sulla nuca che poi legò
con un fermaglio. Fece tutto con rapidità e precisione e quando fu
certa che nessun ciuffo fosse rimasto fuori dalla legatura, prese
nuovamente il cappello e se lo sistemò in testa.
Era in posizione. Riaprì gli occhi.
La vallata era avvolta nell’ombra e il bosco era un’enorme
macchia scura. Sentì un leggero vento salire dal basso. Era solo una
brezza che si muoveva a ondate, ma portava con sé il freddo della
notte.
La colpì il silenzio. Era stata così concentrata sul cammino che
non si era resa conto dell’assenza di qualsiasi rumore. Si trovava in
quel momento del giorno in cui i grilli smettono di cantare aspettando
gli uccelli del mattino. Aveva avuto molte occasioni di muoversi di
notte, nel corso degli ultimi venti mesi trascorsi nella guerriglia
partigiana, ma non si era mai soffermata ad ascoltare e, in quel
momento, ebbe l’impressione che il mondo dovesse ancora
prendere forma.
Diede agli occhi il tempo di abituarsi. Se avesse potuto vedersi,
avrebbe notato subito lo sguardo da predatrice che aveva stampato
in viso. Uno sguardo concentrato, puntato dritto là dove c’era il
bersaglio. Trecento metri più a valle, in una radura tra i faggi, dove il
torrente creava una piccola ansa e il declivio rallentava la sua corsa,
il casolare pareva senza vita. Ma lei sapeva che non era così.
Poteva sentire l’odore di fumo e percepire la presenza di soldati oltre
quelle mura. Sulla destra vide il lume di una sigaretta accesa. C’era
una sentinella in cima al granaio, proprio accanto al casolare,
dall’altra parte dell’aia. Doveva essere un ragazzo, ignaro di ciò che
stava succedendo e troppo sicuro di sé. Ma non era lui il suo
obiettivo.
Appena sotto il tetto, sul lato sinistro della facciata posteriore e
proprio di fronte a lei, una piccola finestra era chiusa. Dietro a quella
finestra c’era una camera, nella camera un grande letto matrimoniale
e accanto al letto una vasca da bagno di stagno.
Che situazione stupida, pensò. Eppure era così che stavano le
cose. Ogni due giorni, verso il tramonto, Walter Reder, comandante
del 16 SS Panzergranadier Division “Reichsfürer-SS”, responsabile
materiale degli eccidi di Monte Sole e Marzabotto, si immergeva
nell’acqua guardando la montagna, mentre un grammofono
diffondeva nel bosco il Tannhäuser di Wagner attraverso la finestra
aperta. Dalla sua postazione ne avrebbe visto solo la faccia
soddisfatta.
Un colpo. Uno solo. In mezzo agli occhi. E la guerra sarebbe
finita.
A questo pensò Anima nel buio della montagna. La fine della
guerra. Uccidere un ufficiale tedesco, colpirlo nel suo quartier
generale. Una pallottola caduta dal cielo. Una sentenza divina.
«La guerra finisce oggi» sussurrò.
Le parole evaporarono a cinque centimetri dal viso.
La fine della guerra. Che in qualche modo e da qualche parte,
aveva avuto inizio.
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